giovedì 25 maggio 2017

"Noi giovani vogliamo che l'Italia sia #ilnostroposto"





Nove su dieci. Troppi. Quasi tre quarti di loro, giovani. Nove italiani su dieci tra quelli che sono stati costretti a lasciare l’Italia per cercare un posto di lavoro all’estero hanno una laurea. Un titolo che in Italia conta quanto un pezzo di carta qualunque ma che in altri Paesi è sinonimo di talento da sfruttare. Perché buttare al vento anni di sacrifici? La tentazione di emigrare è troppo forte. A casa loro non c’è futuro. Altrove sì. A parità di lavoro guadagnano di più, in alcuni Stati addirittura il doppio. Ecco perché la maggior parte di loro non torna. E chi glielo fa fare?
Da un punto di vista pratico, non hanno alcun torto: se l’Italia non dà loro la possibilità di farsi una vita, di tagliare definitivamente il cordone ombelicale dai genitori per acquistare una loro indipendenza, di vedere riconosciute dignitosamente le loro capacità, perché non tentare (e molto spesso trovare) fortuna all’estero? Perché rifiutare una buona offerta oltreconfine?


A domanda, risposta. E a rispondere ci ha pensato una laureata in Giurisprudenza d’impresa, pugliese di Monopoli, 28 anni. Monica Montenegro ha gli occhi verdi, dai quali traspare il sogno di lavorare nel mondo della comunicazione. Ha un sorriso deciso tanto quanto il suo carattere. Ma si scioglie come un ghiacciolo all’arancia quando la sua semplicità trova di fronte un’anima leggera come la sua. Davanti ad un complimento sincero si emoziona e gli occhi verdi lasciano cadere qualche lacrimuccia. Ha nel volto e nell’anima l’aria fresca ma anche pungente di quella parte di Adriatico che bagna la Puglia, il profondo Sud-Est dell’Italia, lasciato alle spalle per studiare alla Bocconi di Milano. La Bocconi, il sogno di migliaia di studenti. Dicono che una laurea in quell’università spalanca le porte un domani. Nel suo caso, delle due una: o il domani deve ancora arrivare o stanno cercando ancora le chiavi per aprire quelle porte.


E non perché, tornata in Puglia, si sia seduta in cima ad un trullo in attesa che arrivi l’occasione della sua vita. Monica l’occasione l’ha cercata eccome. L’ha raccontato qualche mese fa in una lettera pubblicata dalla giornalista Concita De Gregorio sul suo blog e su Repubblica.it: ha mandato quasi 8.000 curriculum. Ottomila. Sapete quanti sono ottomila curriculum? Se fossero fatti di una sola pagina, sarebbero 16 risme da 500 fogli l’una. Ha ricevuto una sola risposta. Dalla Polonia. Gli altri devono aver pensato che Monica aveva già consumato troppa carta ed era il caso di risparmiare evitando di rispondere. C’è anche la posta elettronica, certo. Ma avranno avuto delle rogne con il server. Uno di quei problemi che impediscono ad una persona educata di rispondere ad un messaggio altrettanto educato. Così, tanto per correttezza.


In Polonia la volevano come assistente legale di un’azienda (pardon, come legal assistant, ché oggi se non metti la tua carica in inglese non sei nessuno). Ecco il treno che si avvicina e per il quale, volendo, si stacca un biglietto di sola andata. C’è un posto libero per Monica. Alla stazione, lei punta gli occhi verdi sul treno, lo vede sostare a Monopoli. Ma questa ragazza dai capelli ribelli come la sua anima non ha con sé le valigie. E nemmeno la voglia di salire su quel treno. Lo lascia che parta. Lo vede mentre si allontana. Si volta e guarda la sua terra. Ha gli occhi ludici. Non per il rimpianto di un’occasione persa ma per l’emozione che prova mentre pensa: “Questo è il mio posto”.
Il suo posto è l’Italia. Qui ci vuole restare Monica. Qui avrebbero voluto rimanere le decine di migliaia di giovani costretti ad emigrare per trovare un avvenire. Monica pensa anche a loro. E decide che “il mio posto” deve diventare “il nostro posto”. Il posto di tutti quelli che hanno l’ambizione di vivere e di morire nel Paese in cui sono nati. Di mettere a disposizione del proprio Paese e delle generazioni che verranno il loro talento e la loro creatività.


“Il nostro posto” cambia le virgolette per un cancelletto e si trasforma in un hashtag, #ilnostroposto, appunto. Poi cresce e diventa un progetto sviluppato sui social (e dove, altrimenti?) che raccoglie delle storie. Storie di ragazzi costretti a lasciarsi l’Italia alle spalle per toccare con mano quella possibilità di futuro negata a casa loro. Storie di giovani emigrati che non vogliono soltanto raccontare quanto c’è di bello altrove, ma quanta voglia avrebbero di mettersi a disposizione del loro Paese. Patrizia, ad esempio, ha lasciato Pisa – “e gli amici, i luoghi, la famiglia, il cibo…” – per gli Stati Uniti. “Dopo 8 mesi – constata questa giovane toscana – posso dire che l’America non è un sogno ma c’è ricerca e, a livello accademico e professionale, può restituirmi quello che l’Italia mi stava togliendo: la mia passione”. Amara soddisfazione? Cruda realtà.
Storie di ragazzi caparbi, che, nonostante le difficoltà, vogliono farcela a casa loro. Dalila sogna di fare la scrittrice. “Tutto quello che sono riuscita a fare nel mio Paese – racconta – è stato collezionare ogni improbabile colloquio, ogni assurda esperienza di non-lavoro e di non-contratto e scrivere un libro”. Lo ha fatto nel 2014 grazie ad una piccola casa editrice del nostro Sud. Il titolo del suo libro, tutto un programma: Alice nel Paese dei call center.
Viviana ce l’ha con Flavio Briatore, colpevole – a suo dire – di aver tacciato i giovani che restano in Italia come dei falliti e dei fannulloni. Senza peli sulla lingua, Viviana descrive a Briatore la sua idea di felicità: “E’ quella che ritroviamo nel nostro sudore alla sera, che puzza di fatica, di onestà e di semplicità. Che puzza di calzone di cipolle a Pasqua e di lenticchie a Capodanno. Che puzza di mare al mattino e di campagna alla sera. Avere il coraggio di restare mentre quelli come te dicono di fuggire via è la nostra vera vittoria”. Si potrebbe aggiungere altro?


Come no. Si possono aggiungere le storie – meglio sarebbe dire le frustrazioni – di Antonella, di Ilenia, di Francesco, di Maria Donata e di tanti altri ragazzi con l’amaro in bocca per non ricevere dall’Italia la possibilità di dimostrare quanto valgono. Ragazzi, però, che continuano a lottare perché arrivi il giorno in cui lo possano fare, convinti che questo è #ilnostroposto.


Monica, la ragazza pugliese degli occhi verdi, dai capelli ribelli come il suo carattere, dal sorriso magnetico e contagioso, la ragazza di Monopoli che sogna di lavorare nel mondo della comunicazione e che ha messo in piedi questo progetto, si chiede: “Dove finirà la nostra creatività? Dove finirà il talento italiano?” La parola “finirà” non mi piace. Preferisco domandarmi “quando torneranno in Italia”, o, alla peggio, “dove si svilupperanno” quella creatività e quel talento. Perché le capacità dei nostri ragazzi non “finiscono” mai. Sta all’Italia (politici ed imprenditori) non farsele scappare. Sta ai ragazzi continuare a combattere, a studiare, a prepararsi per dimostrare che questo Paese è il loro posto. Anzi: #ilnostroposto.

venerdì 22 luglio 2016

Erdogan: otto-mani e cervello finissimo

"Figlia mia, ti ho toccata? Tu devi capire che io sono turco. Io sono ottomano. Tu di mani ne vedi solo due, ma ne ho altre sei". Tayyip Erdogan non è un turco napoletano, come Totò. Il Principe ci faceva ridere. Il Sultano mica tanto.

Con le sue "ottomani" (due non gli bastavano) ha sempre preso per i fondelli il mondo intero. Con il beneplacito di quel mondo intero, timoroso della sua vicinanza geografica con il Medio Oriente. Quel mondo intero scopre solo ora le trame di questo aspirante imperatore, tanto furbo quanto pericoloso. O fa finta di scoprirlo solo ora.
Che Erdogan abbia organizzato il colpo di Stato di una settimana fa pare, ormai, evidente. Qual è il modo migliore per guadagnare popolarità se non quello di passare per vittima? Qual è la scusa migliore per fare pulizia di personaggi scomodi se non quella di accollare loro la colpa di un'insurrezione, di un complotto contro il garante della democrazia? E' vero che Erdogan, al momento del presunto colpo di Stato, con un tempismo da orologio svizzero, era già a bordo un aereo per Londra in modo da togliersi di mezzo "per motivi di sicurezza"?

Nel 1981, il 23 febbraio, ci fu un serio tentativo di colpo di Stato in Spagna (lo cito perché io c'ero, non parlo di ciò che non ho conosciuto). La dittatura di Francisco Franco era finita da poco più di 5 anni. Vuol dire che quel golpe era governato da chi era cresciuto nell'esercito sotto le logiche del Generalisimo (per la plebe, il generale "gambe corte" per via della sua scarsa statura. In senso lato.). Il capo di Stato, quella notte del 1981 era Re Juan Carlos. Sul quale tutto si può dire ma non che abbandonò il Paese a bordo di un aereo per chissà dove. Restò al suo posto. E fece abortire il golpe poco dopo il suo concepimento.
Questo gesto rese credibile l'uomo che, seppur con i limiti imposti alla Corona dalla Costituzione, governava un Paese la cui democrazia era in grave pericolo. Non fu versata una sola goccia di sangue. Non ci fu epurazione di massa. Nessuno venne denudato, ridicolizzato. I professori universitari restarono al loro posto. I magistrati, pure. Finirono in galera soltanto quelli che avevano orchestrato, in modo piuttosto maldestro, un tentativo di ritorno al passato. Addirittura ex fascisti e comunisti al Parlamento convenirono sull'opportunità di non rendere quell'episodio un trauma per il Paese.
Erdogan, invece, ha preso la palla al balzo (calciata in origine da lui stesso, forse, chissà) per fare pulizia etnica ed intellettuale. "Do cojo, cojo", direbbero i romani. Magistrati, giornalisti, avvocati, militari, professori universitari...via tutti. Chi gli è contro gli è nemico, quindi va annientato. Non è dittatura questa? I militari che, a suo dire, tramavano contro di lui avrebbero reso il popolo turco meno libero?
Il Sultano, da tempo, ha nelle ottomani gli zebedei dell'Europa e dell'America. E non intende mollarli, anzi: sta aumentando la stretta, creando dei dolori sempre più fastidiosi. I Paesi dell'Unione Europea, che solo ora si svegliano sulla pericolosità di questo personaggio, avvertono che la Turchia, così, non può entrare nel club dei 27. Ma sono sicuri che a Erdogan interessi davvero qualcosa di farsi comandare da Bruxelles?

L'America, in un momento di cambio della guardia alla Casa Bianca, potrebbe avere un atteggiamento ancora più inquietante. Barack Obama, presidente uscente, deve stare attendo a dove mette i piedi, prima di fare qualche passo falso e compromettere l'elezione di Hillary Clinton. Qualche dichiarazione diplomatica sì, del tipo "non va bene così", ecc. Ma poco più. La vera incognità è: che succederà se le presidenziali americane le vince Donald Duck? La Turchia, Paese associato a quella Nato di cui Trump vorrebbe fare a meno, si specchia su quella Siria dove comincia l'inferno mediorientale, le cui fiamme, alimentate dalla rabbia dell'Isis, fanno bruciare anche l'Occidente, America compresa. Insomma, Trump sosterrà chi, come lui, vuole la mano dura contro il nemico a costo di asfaltare chi non la pensa come il Padrone (un consigliere di Trump ha proposto per ben due volte di fucilare la Clinton), o sceglierà la via della mediazione per non rompere del tutto gli equilibri internazionali? Ah, già, pardon. Non l'avevo considerato. La parola "mediazione", ovvero mediation non è sul vocabolario di Trump. E questo è veramente disturbing, cioè inquietante.




lunedì 4 luglio 2016

Pellè si ricordi che ha una "l" in più


Chiariamo subito una cosa: sono uno che sa perdere quando, obiettivamente, non ci sono degli argomenti validi per vincere. Il fatto che la Spagna sia stata sconfitta dall'Italia all'Europeo di calcio non mi ha frastornato più di tanto: il ciclo è finito, la Roja è da rifare. Le Furie Rosse hanno fatto in poco tempo quello che nessuno ha fatto: Europeo-Mondiale-Europeo. Ora, lavoro e pazienza. Era stato peggio l'ultima volta che gli azzurri ci hanno cacciati via da un torneo, 22 anni fa. Erano i Mondiali americani del 1994. Giocavano i vari Baggio, Baresi, Costacurta. C'era perfino Conte. Fu sostituito al 66' da Nicola Berti (ve lo ricordate?) E c'erano anche Tassotti ed il gomito di Tassotti (non ci fu rigore su Luis Enrique ma diedero all'allora difensore del Milan 8 giornate di squalifica...). Uscimmo non solo per il rigore negato allo scadere, ma anche perché il Torpe (all'anagrafe Julio Salinas) sbagliò davanti a Pagliuca un gol che ho visto segnare decine di volte all'oratorio. Comunque, roba da amarcord.


Da quel pomeriggio di giugno, la Spagna ha mandato l'Italia a casa due volte: in finale all'ultimo Europeo con quattro schiaffi (nel senso di reti, non di gomitate) e ad Euro 2008. Oh, mamma...ai quarti di  finale e ai rigori!
Sbagliarono De Rossi e Di Natale. Due specialisti ma, soprattutto, due professionisti. Nessuno dei due si permise di sfottere Casillas, che ai tempi, con Buffon, era il miglior portiere al mondo. Calciarono e basta. Sbagliarono e basta. Come due professionisti. E basta.
De Rossi, tra le altre cose, era già stato campione del mondo nel 2006. Di Natale, due volte capocannoniere della Serie A (2010 e 2011) e Pallone d'argento nel 2011. Eppure nessuno dei due pensò di essere in condizione di sfottere un avversario, oltrettutto con il palmares di Casillas.

 E adesso arriva Pellè. Credo sia convinto che suo papà sbagliò a registrarlo all'anagrafe e segnò una "l" in più. E' probabile che, nel suo intimo, pensi di essere Pelè. Certo, O Rei non poteva provocare un portiere avvertendolo che avrebbe tirato un rigore a cucchiaio: doveva ancora inventarlo Panenka.
Ma Pelè il brasiliano aveva la classe, non l'effetto "tappo di gazzosa": stappi col botto, poi il contenuto della bottiglia si ammoscia. Pelè è una leggenda, Pellè deve ancora scrivere la sua favola. Pelè incantava il mondo, oltre che con le sue giocate, con la simpatia dei suoi ricci. Pellè ha creduto di farlo con la brutta imitazione del ciuffo di Nicola Berti, quello che sostituì Conte nel '94 con la Spagna.

 A Pelè interessava giocare e vincere. Forse pure a Pellè. Ma il primo lo faceva senza cercare le inquadrature della tv, un mezzo che ai tempi era pensato per far vedere più gioco e meno giocatori. Pellè, invece, si pettina dopo ogni azione, dopo ogni colpo di testa.
Pelè, dopo una carriera impressionante, non ha mai dovuto chiedere scusa a nessuno. Pellè è stato costretto a farlo al primo grande torneo della sua vita. Annullando quel poco di buono che ha fatto finora (poco non per il valore dei suoi gol ma perché ha appena iniziato la carriera). Si è reso ridicolo, davanti all'Italia, alla Germania, al mondo mondiale. Non so se meriti la maglia azzurra, dopo un gesto di superbia come il suo. Non so se possa avere l'orgoglio di indossare il numero 9 con cui Antognoni vinse il Mondiale spagnolo e che indossarono anche Vieri, Torricelli, Ancelotti, Inzaghi, . Perfino, anche se raramente, Gaetano Scirea. Veri campioni. Oddio, l'ha indossata anche Balotelli. Vabbè, l'importante è che, per una volta, ci sia due senza tre.



lunedì 20 giugno 2016

Ma c'è ancora Mastella...?

Tutti impegnati a capire quanto è brava e bella la nuova sindaca di Roma, Virginia Raggi. O quanto è stata tenace Chiara Appendino a mandare a casa l'ormai ex sindaco di Torino, Piero Fassino (presidente, tra l'altro, dell'Anci, l'associazione dei sindaci di Italia).
Tutti intenti a vedere se a Milano ce la faceva mister Expo Beppe Sala (ai rigori come il Real contro l'Atletico, ma la coppa meneghina l'ha alzata lui).
Tutti a dare (giustamente) addosso a Renzi per la sconfitta. Ad osannare (insomma...) Beppe Grillo per la vittoria dei Pentastellati. Ad ignorare che la Lega (per la miseria, ha perso anche la Maroniana Varese...) e Forza Italia (ah, è vero, ha preso Trieste) sono usciti dal panorama politico amministrativo "per colpa dell'astensione".
Tutti condizionati dai riflettori mediatici sulle grandi capitali, sui grandi personaggi, belli o brutti che siano. Per carità, si può anche capire. Quello che non capisco è chi diavolo ha votato ancora a Benevento Clemente Mastella, da ieri sera sindaco della città campana. Le malelingue dicono che buona parte del merito del suo 62 e passa percento al ballottaggio contro il candidato del Pd ce l'hanno i grillini (lui dice di rappresentare l'Italia non grillina, ma fa niente).
Mastella è uno dei pochi ad avere vinto con l'appoggio di quel marasma di centrodestra di cui, ormai, non si capisce più niente: qui insieme, là no. Qui ti sego le gambe, là ti impianto una protesi. Ha dichiarato di avercela fatta nonostante le cattiverie dette in campagna elettorale. E io, in questo pomeriggio (finalmente) di sole, di cattiverie non ne ho proprio voglia.
Preferisco fare un copia/incolla della pagina di Wikipedia che racconta chi è il nuovo sindaco di Benevento. Così, per rinfrescare la memoria su un personaggio che, francamente, immaginavo nel buon ritiro della pensione politica. Ma che, invece, della politica non riesce a farne a meno. A modo suo? Lo dirà il tempo.

Da Wikipedia:

Il 14 ottobre 2007 Clemente Mastella viene iscritto nel registro degli indagati della procura di Catanzaro nell'ambito dell'inchiesta Why Not del sostituto procuratore Luigi De Magistris: l'ipotesi di reato è abuso di ufficio. Il ministro è sospettato di essere coinvolto in una "rete" costituita da politici, imprenditori, giudici e massoni finalizzata ad ottenere finanziamenti dallo Stato e dall'Unione europea.
Il coinvolgimento del ministro nell'inchiesta è motivato dai suoi rapporti con l'imprenditore Antonio Saladino. L'indagine coinvolge l'attività imprenditoriale di Saladino, titolare in passato di una società di lavoro interinale denominata "Why Not". Agli atti figurano, tra l'altro, intercettazioni di colloqui telefonici proprio tra Mastella e Saladino.
Il 16 gennaio 2008, dopo il provvedimento di arresti domiciliari nei confronti della moglie Sandra Lonardo, da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere, Mastella presenta le sue dimissioni da ministro, sostenendo di essere vittima, insieme alla sua famiglia, di un attacco della magistratura. Le dimissioni vengono respinte dal Presidente del Consiglio Romano Prodi[32] e nel tardo pomeriggio della stessa giornata le agenzie di stampa scrivono che anche lo stesso Mastella sarebbe indagato nell'ambito dell'inchiesta riguardante la moglie.
Il giorno seguente Mastella conferma le proprie dimissioni ed annuncia che il suo partito, l'UDEUR, darà "appoggio esterno" al governo. Il 21 gennaio Mastella modifica la propria posizione dichiarando di uscire dalla maggioranza e di voler votare no alla questione di fiducia[33]. Il governo Prodi cade il 24 gennaio in seguito al voto di sfiducia.
L'8 marzo dello stesso anno la Procura Generale di Catanzaro, che aveva avocato a sé le indagini dopo la dichiarazione d'incompatibilità del sostituto procuratore De Magistris, chiede l'archiviazione delle accuse ipotizzate a carico di Mastella, che esce dall'inchiesta. Nelle motivazioni, depositate il 1º aprile, il Gip ha affermato che "non vi erano neanche gli estremi per poter iscrivere Mastella nel registro degli indagati". L'ex Guardasigilli ha annunciato che intende "valutare tutte le possibili azioni giudiziarie e amministrative a tutela della mia persona" e dichiara di voler "chiedere il risarcimento dei danni a chi ha lavorato, sul piano giudiziario, quello mediatico e quello politico, per la mia eliminazione politica".[34].
Il 19 dicembre 2009 Mastella dà mandato ai suoi legali di citare in giudizio lo Stato italiano per l'archiviazione dell'inchiesta Why Not. La richiesta di risarcimento ammonta a 10 milioni.[35]
Il 26 febbraio 2009 appare sull'Espresso la notizia che il giudice GianDomenico Lepore ha inviato gli avvisi di chiusura delle indagini per l'inchiesta riguardante l'ex ministro della giustizia[36].
Nei mesi seguenti, la vicenda si è capovolta, giudicando illegittima l'avocazione dell'inchiesta Why Not, legittime le intercettazioni, e l'inchiesta di Santa Maria Capua Vetere è passata alla procura di Napoli che, in maggio 2009 ha ritenuto fondate molte delle accuse, rinviando a giudizio Clemente Mastella e sua moglie Sandra Lonardo.[37]
Nel marzo 2011 Clemente Mastella viene rinviato a giudizio, assieme alla moglie Sandra Lonardo, per tre capi di imputazione: truffa e appropriazione indebita, in merito all'acquisizione al patrimonio familiare di due appartamenti a Roma di proprietà dell'Udeur e della testata giornalistica Il Campanile; abuso d'ufficio, per l'assegnazione di incarichi da parte dell'Arpac[38].
Il 22 dicembre 2011 il GUP di Benevento Flavio Cusani rinvia a giudizio Clemente Mastella per corruzione nell'ambito dell'inchiesta "Iside Nova". L'indagine è condotta dal procuratore Antonio Clemente il quale sarà in seguito sostituito dal procuratore capo Giuseppe Maddalena.[39][40]

Critiche e aspetti controversi

Nel 1994 fonda il CCD di cui diviene presidente, e al cui progetto aderisce immediatamente Lorenzo Cesa, che viene messo a capo della segreteria politica. In quel periodo Cesa era, da pochi mesi, sotto processo (nonché reo confesso) per un importante caso di corruzione legato al ministero dei Lavori Pubblici.
Molto discussi sono i trascorsi rapporti di amicizia con l'ex-presidente del consiglio comunale di Villabate e condannato per mafia Francesco Campanella. Rapporti tanto stretti che Mastella fu testimone delle nozze del Campanella nel 2000. Alle stesse nozze fu testimone anche il presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa[41] e poi condannato in primo grado nel gennaio del 2008 a 5 anni di carcere per favoreggiamento semplice ad uomini vicini al superboss Bernardo Provenzano.
All'inizio del febbraio 2007 egli viene raggiunto da un avviso di garanzia da parte della Procura della Repubblica di Napoli. L'ipotesi formulata dagli inquirenti è quella di concorso in bancarotta fraudolenta per il fallimento del Napoli Calcio, dichiarato nel 2004 con sentenza del Tribunale di Napoli. L'iscrizione nel registro degli indagati rappresenta un fatto dovuto, dal momento che, all'epoca della commissione dei presunti illeciti (2002), Mastella era vicepresidente della società e membro del consiglio di amministrazione. Interpellato al riguardo, Mastella si è dichiarato estraneo al crac, sostenendo di non aver mai partecipato direttamente alla gestione della Società.

mercoledì 15 giugno 2016

Mi rubano in metrò. Ma nessuno vede niente

Succede a Milano, stazione di Porta Garibaldi. Non proprio una di quelle fermate della metropolitana deserte, per non dire sfigate. E' sfigata, invece, la ragazza che, nei tre minuti impiegati a raggiungere dal metò i binari delle ferrovie, viene derubata del cellulare che teneva nello zaino. Milano, stazione di Porta Garibaldi, metà mattina. C'è il pienone. Nessuno vede. E se vede non parla. Non fa niente. Tira dritto. I passanti voltano lo sguardo da un'altra parte. Non sono affari loro. Non vogliono casini. Hanno fretta. Come tutti, a Milano. Quando toccherà a loro, si lamenteranno che nessuno vede, nessuno parla, nessuno fa niente, tutti tirano dritto...ecc.ecc...
Ma, nel frattempo, non sono affari loro. Hanno fretta. Come tutti, a Milano.


lunedì 13 giugno 2016

Sallusti, il vero scandalo è un altro


 La conoscenza del pensiero del nemico sta alla base della cultura di ogni popolo. Per quello non mi scandalizza che Il Giornale abbia messo in vendita insieme al quotidiano Mein Kampf, il libro che raccoglie l'ideologia di Adolf Hitler.
Non mi scandalizza per varie ragioni. La prima, l'ho appena detta, perché ritengo che non si debba conoscere soltanto quello che ci è affine ma anche quello che dista anni luce dalle nostre idee. Più sarà ampia la nostra conoscenza, più potremo criticare quello con cui non siamo d'accordo. Altrimenti faremmo delle chiacchiere nostre basate su delle chiacchiere riportate da altri. Niente di più triste.
La seconda, perché non infrange la legge. Le librerie sono piene di volumi come questo, di biografie di dittatori, di saggi scritti da macellai. Nessuno si è mai lamentato. Vendere Mein Kampf non è illegale. E, credo, nemmeno inopportuno. Non è più sbagliato di allegare ad un quotidiano di informazione il libro delle ricette di suor Germana. Ciascuno fa le proprie scelte. Così come la famiglia Berlusconi ritiene una buona idea di diffondere il pensiero di Hitler, altri pensano sia meglio informare i lettori su come cucinare gli asparagi. Personalmente, credo sia più utile la scelta di Alessandro Sallusti: sapere come spiegare la storia ai miei figli dopo aver analizzato il cervello atroce di un boia aiuterà loro a non commettere gli stessi sbagli. Anche se si bruciano gli asparagi: c'è sempre una pizzeria d'asporto accanto a casa.

Mi scanzalizza di più che nessuno abbia notato (o per lo meno che non abbia avuto la stessa eco) la mossa, questa volta illegale, fatta dallo stesso quotidiano sabato 4 giugno. Cioè, il giorno del silenzio elettorale, alla vigilia del voto per il primo turno delle amministrative. Sallusti (e quindi Paolo Berlusconi, editore di Il Giornale e fratello dell'ex Cavaliere) ha pubblicato quel giorno un'intervista all'ex premier, Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia. Proprio quel sabato in cui non è permesso (lo dice la legge) fare campagna elettorale. Berlusconi (Silvio), che, probabilmente, sentiva già la puzza della sconfitta, si è prodigato in appelli al voto per il centrodestra. "Un voto per pagare tasse" recitava il titolone, acarattere cubitali, in prima pagina. Vedete voi. Questo sì è illegale. Ma nessuno ha alzato la voce.

Nessuno ha chiesto una sanzione (prevista dalla legge) per aver pubblicato un appello al voto nella giornata di silenzio. Nessuno, nemmeno l'Ordine dei Giornalisti (quel fantasma che vuole da noi solo soldi ma che, in casi come questo, volta sempre lo sguardo dall'altra parte), ha preso posizione.
Mein Kampf, in tedesco, significa "la mia battaglia". Forse è solo un caso che nell'arco di appena 10 giorni Il Giornale ne abbia pubblicate due di battaglie, unite dallo stesso bisogno di potere.

venerdì 10 giugno 2016

Qualcuno inventi una medicina per i politici disturbati


Anni fa, tra le altre cose, facevo il cantante in una discoteca. Credo di averlo scritto nel post di benvenuto. La foto sopra è dei primi tempi. Ma questo, chi mi ha visto di recente, l'avrà già capito. Bisognava arrotondare, e ho cercato di far fruttare (tutto sommato con un discreto successo) uno degli scarsi doni che il buon Dio mi ha regalato: la voce e l'intuizione per la musica. Una sera mi sono trovato coinvolto in una cena organizzata da Alleanza Nazionale. C'erano le elezioni amministrative, mi sembra (qui si va così tante volte alle urne che, alla mia tenera età, ho perso il conto).

 Ospite d'onore, l'allora fedelissimo di Gianfranco Fini, nonché coordinatore del Popolo della Libertà, Ignazio La Russa. Gnazio, per i simpatizzanti di Fiorello. Mi fece un autografo per mia figlia (era piccola) firmandosi come lei lo chiamava quando lo sentiva in televisione: "Brontolo". Lui faceva il suo mestiere di politicante, io il mio di cantante. Lui parlava e tutti stavano zitti. Io cantavo e qualcuno ascoltava. Finché, con aria solenne, uno dei suoi chierichetti, si avvicinò a me e mi disse: "Spegni la musica, l'onorevole ha mal di testa". Notare: non "mi scusi, Le dispiace...?" Alla fine, stavo lavorando. No. "Spegni la musica". L'ho abbassata. Dopo 10 minuti, un decibel alla volta, era al livello di prima. C'era qualche altra decina di persone in sala. Anche loro stavano pagando nella cena il prezzo del musicista. Nessuno si è più lamentato.


Mai infastidire un politico. Ha la precedenza su chiunque e su ogni cosa. Passa come un carro armato su chiunque e su ogni cosa. Che sia un povero diavolo che sta facendo il suo mestiere di cantante, non solo per lui, che sia una banda chiamata a suonare (non solo per lui, ci mancherebbe) l'inno di Mameli ad un evento ufficiale. Come a quello organizzato qualche giorno fa a Sulzano, ridente località in provincia di Brescia, sul lago di Iseo. L'occasione era l'inaugurazione di "The Floating Piers", una passerella galleggiante progettata, non a caso, dall'artista Christo. Non a caso, perché, a passarci sopra, l'impressione che si dà è quella di camminare sulle acque. Come se avessero chiamato Giacomo Della Porta a progettare l'ingresso di un palazzo.

 Ma torniamo al politico. Arriva il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni.Il Governatore, anzi: il Governatur. Niente auto blu (nemmeno verde-Lega) ma la locomotiva più antica d'Europa, un trenino d'epoca, risalente al 1883, rispolverato ad hoc da Trenord. Chissà se Maroni, a capo della Regione che è socio di maggioranza di Trenord, avrà notato la differenza tra quel trenino e quelli che, ogni tanto, portano qua e là i pendolari della Lombardia.
Bene, Maroni scende e ad aspettarlo, oltre alle autorità locali fasciate in tricolore (in tricolore!!!!) c'era anche la banda. Vuoi che arrivi il Governatur e non ci sia la banda? Ma scherzi? Ecco trombe e sassofoni, grancasse e clarinetti, flauti e tube, scherati per cotanto momento solenne. Che si suona? Beh, l'inno di Mameli, direi. Un pezzo della Pausini sarebbe stato inopportuno (forse meglio, tenuto conto dell'ospite, Van De Sfroos, ma non sembrava il caso...). L'inno di Mameli, aggiudicato.
Eccoli che stanno per partire con il "Tattararà tararà tararà tararatta tattattà"...che arriva il sindaco (la sindaco, la sindachessa...come devo chiamarla?). Chiamiamola per nome: Paola Pezzotti, eletta nelle liste di Forza Italia. Arriva e dice: "No, mi dispiace. L'inno di Mameli no, potrebbe indispettire il Governatore..."
I musicisti si guardano stupiti. "Come l'inno di Mameli no...? Non se ne parla, noi lo suoniamo". La sindaco/sindaca/sindachessa insiste: "Meglio un'altra marcia". Marcia proprio la musica che può sostituire un inno nazionale per l'indisponenza di un politico ad ascoltarlo.
Marcia e amara deve essere sembrata l'alternativa a cui la banda si è dovuta piegare per non indispettire il Governatur: la marcia "Primis", di Lorenzo Pusceddu, nato a Dolianova, provincia di Cagliari, e di Antonio Petrillo, nativo di...Salerno!
La banda protesta ma suona, anche se indispettita. Sassofonisti e flautisti, percussionisti e clarinettisti, si sentono presi per i fondelli. Come musicisti e come italiani. Maroni, invece, sorride, nel suo completo scuro acquistato con i soldi dello Stato italiano, che continua a pagargli un lauto stipendio da Governatur, nonostante lui vada avanti a sputare sul piatto da cui mangia. Era musicista anche lui, ma suonava blues. Altro che Mameli, roba da calciatori.