venerdì 22 luglio 2016

Erdogan: otto-mani e cervello finissimo

"Figlia mia, ti ho toccata? Tu devi capire che io sono turco. Io sono ottomano. Tu di mani ne vedi solo due, ma ne ho altre sei". Tayyip Erdogan non è un turco napoletano, come Totò. Il Principe ci faceva ridere. Il Sultano mica tanto.

Con le sue "ottomani" (due non gli bastavano) ha sempre preso per i fondelli il mondo intero. Con il beneplacito di quel mondo intero, timoroso della sua vicinanza geografica con il Medio Oriente. Quel mondo intero scopre solo ora le trame di questo aspirante imperatore, tanto furbo quanto pericoloso. O fa finta di scoprirlo solo ora.
Che Erdogan abbia organizzato il colpo di Stato di una settimana fa pare, ormai, evidente. Qual è il modo migliore per guadagnare popolarità se non quello di passare per vittima? Qual è la scusa migliore per fare pulizia di personaggi scomodi se non quella di accollare loro la colpa di un'insurrezione, di un complotto contro il garante della democrazia? E' vero che Erdogan, al momento del presunto colpo di Stato, con un tempismo da orologio svizzero, era già a bordo un aereo per Londra in modo da togliersi di mezzo "per motivi di sicurezza"?

Nel 1981, il 23 febbraio, ci fu un serio tentativo di colpo di Stato in Spagna (lo cito perché io c'ero, non parlo di ciò che non ho conosciuto). La dittatura di Francisco Franco era finita da poco più di 5 anni. Vuol dire che quel golpe era governato da chi era cresciuto nell'esercito sotto le logiche del Generalisimo (per la plebe, il generale "gambe corte" per via della sua scarsa statura. In senso lato.). Il capo di Stato, quella notte del 1981 era Re Juan Carlos. Sul quale tutto si può dire ma non che abbandonò il Paese a bordo di un aereo per chissà dove. Restò al suo posto. E fece abortire il golpe poco dopo il suo concepimento.
Questo gesto rese credibile l'uomo che, seppur con i limiti imposti alla Corona dalla Costituzione, governava un Paese la cui democrazia era in grave pericolo. Non fu versata una sola goccia di sangue. Non ci fu epurazione di massa. Nessuno venne denudato, ridicolizzato. I professori universitari restarono al loro posto. I magistrati, pure. Finirono in galera soltanto quelli che avevano orchestrato, in modo piuttosto maldestro, un tentativo di ritorno al passato. Addirittura ex fascisti e comunisti al Parlamento convenirono sull'opportunità di non rendere quell'episodio un trauma per il Paese.
Erdogan, invece, ha preso la palla al balzo (calciata in origine da lui stesso, forse, chissà) per fare pulizia etnica ed intellettuale. "Do cojo, cojo", direbbero i romani. Magistrati, giornalisti, avvocati, militari, professori universitari...via tutti. Chi gli è contro gli è nemico, quindi va annientato. Non è dittatura questa? I militari che, a suo dire, tramavano contro di lui avrebbero reso il popolo turco meno libero?
Il Sultano, da tempo, ha nelle ottomani gli zebedei dell'Europa e dell'America. E non intende mollarli, anzi: sta aumentando la stretta, creando dei dolori sempre più fastidiosi. I Paesi dell'Unione Europea, che solo ora si svegliano sulla pericolosità di questo personaggio, avvertono che la Turchia, così, non può entrare nel club dei 27. Ma sono sicuri che a Erdogan interessi davvero qualcosa di farsi comandare da Bruxelles?

L'America, in un momento di cambio della guardia alla Casa Bianca, potrebbe avere un atteggiamento ancora più inquietante. Barack Obama, presidente uscente, deve stare attendo a dove mette i piedi, prima di fare qualche passo falso e compromettere l'elezione di Hillary Clinton. Qualche dichiarazione diplomatica sì, del tipo "non va bene così", ecc. Ma poco più. La vera incognità è: che succederà se le presidenziali americane le vince Donald Duck? La Turchia, Paese associato a quella Nato di cui Trump vorrebbe fare a meno, si specchia su quella Siria dove comincia l'inferno mediorientale, le cui fiamme, alimentate dalla rabbia dell'Isis, fanno bruciare anche l'Occidente, America compresa. Insomma, Trump sosterrà chi, come lui, vuole la mano dura contro il nemico a costo di asfaltare chi non la pensa come il Padrone (un consigliere di Trump ha proposto per ben due volte di fucilare la Clinton), o sceglierà la via della mediazione per non rompere del tutto gli equilibri internazionali? Ah, già, pardon. Non l'avevo considerato. La parola "mediazione", ovvero mediation non è sul vocabolario di Trump. E questo è veramente disturbing, cioè inquietante.




lunedì 4 luglio 2016

Pellè si ricordi che ha una "l" in più


Chiariamo subito una cosa: sono uno che sa perdere quando, obiettivamente, non ci sono degli argomenti validi per vincere. Il fatto che la Spagna sia stata sconfitta dall'Italia all'Europeo di calcio non mi ha frastornato più di tanto: il ciclo è finito, la Roja è da rifare. Le Furie Rosse hanno fatto in poco tempo quello che nessuno ha fatto: Europeo-Mondiale-Europeo. Ora, lavoro e pazienza. Era stato peggio l'ultima volta che gli azzurri ci hanno cacciati via da un torneo, 22 anni fa. Erano i Mondiali americani del 1994. Giocavano i vari Baggio, Baresi, Costacurta. C'era perfino Conte. Fu sostituito al 66' da Nicola Berti (ve lo ricordate?) E c'erano anche Tassotti ed il gomito di Tassotti (non ci fu rigore su Luis Enrique ma diedero all'allora difensore del Milan 8 giornate di squalifica...). Uscimmo non solo per il rigore negato allo scadere, ma anche perché il Torpe (all'anagrafe Julio Salinas) sbagliò davanti a Pagliuca un gol che ho visto segnare decine di volte all'oratorio. Comunque, roba da amarcord.


Da quel pomeriggio di giugno, la Spagna ha mandato l'Italia a casa due volte: in finale all'ultimo Europeo con quattro schiaffi (nel senso di reti, non di gomitate) e ad Euro 2008. Oh, mamma...ai quarti di  finale e ai rigori!
Sbagliarono De Rossi e Di Natale. Due specialisti ma, soprattutto, due professionisti. Nessuno dei due si permise di sfottere Casillas, che ai tempi, con Buffon, era il miglior portiere al mondo. Calciarono e basta. Sbagliarono e basta. Come due professionisti. E basta.
De Rossi, tra le altre cose, era già stato campione del mondo nel 2006. Di Natale, due volte capocannoniere della Serie A (2010 e 2011) e Pallone d'argento nel 2011. Eppure nessuno dei due pensò di essere in condizione di sfottere un avversario, oltrettutto con il palmares di Casillas.

 E adesso arriva Pellè. Credo sia convinto che suo papà sbagliò a registrarlo all'anagrafe e segnò una "l" in più. E' probabile che, nel suo intimo, pensi di essere Pelè. Certo, O Rei non poteva provocare un portiere avvertendolo che avrebbe tirato un rigore a cucchiaio: doveva ancora inventarlo Panenka.
Ma Pelè il brasiliano aveva la classe, non l'effetto "tappo di gazzosa": stappi col botto, poi il contenuto della bottiglia si ammoscia. Pelè è una leggenda, Pellè deve ancora scrivere la sua favola. Pelè incantava il mondo, oltre che con le sue giocate, con la simpatia dei suoi ricci. Pellè ha creduto di farlo con la brutta imitazione del ciuffo di Nicola Berti, quello che sostituì Conte nel '94 con la Spagna.

 A Pelè interessava giocare e vincere. Forse pure a Pellè. Ma il primo lo faceva senza cercare le inquadrature della tv, un mezzo che ai tempi era pensato per far vedere più gioco e meno giocatori. Pellè, invece, si pettina dopo ogni azione, dopo ogni colpo di testa.
Pelè, dopo una carriera impressionante, non ha mai dovuto chiedere scusa a nessuno. Pellè è stato costretto a farlo al primo grande torneo della sua vita. Annullando quel poco di buono che ha fatto finora (poco non per il valore dei suoi gol ma perché ha appena iniziato la carriera). Si è reso ridicolo, davanti all'Italia, alla Germania, al mondo mondiale. Non so se meriti la maglia azzurra, dopo un gesto di superbia come il suo. Non so se possa avere l'orgoglio di indossare il numero 9 con cui Antognoni vinse il Mondiale spagnolo e che indossarono anche Vieri, Torricelli, Ancelotti, Inzaghi, . Perfino, anche se raramente, Gaetano Scirea. Veri campioni. Oddio, l'ha indossata anche Balotelli. Vabbè, l'importante è che, per una volta, ci sia due senza tre.



lunedì 20 giugno 2016

Ma c'è ancora Mastella...?

Tutti impegnati a capire quanto è brava e bella la nuova sindaca di Roma, Virginia Raggi. O quanto è stata tenace Chiara Appendino a mandare a casa l'ormai ex sindaco di Torino, Piero Fassino (presidente, tra l'altro, dell'Anci, l'associazione dei sindaci di Italia).
Tutti intenti a vedere se a Milano ce la faceva mister Expo Beppe Sala (ai rigori come il Real contro l'Atletico, ma la coppa meneghina l'ha alzata lui).
Tutti a dare (giustamente) addosso a Renzi per la sconfitta. Ad osannare (insomma...) Beppe Grillo per la vittoria dei Pentastellati. Ad ignorare che la Lega (per la miseria, ha perso anche la Maroniana Varese...) e Forza Italia (ah, è vero, ha preso Trieste) sono usciti dal panorama politico amministrativo "per colpa dell'astensione".
Tutti condizionati dai riflettori mediatici sulle grandi capitali, sui grandi personaggi, belli o brutti che siano. Per carità, si può anche capire. Quello che non capisco è chi diavolo ha votato ancora a Benevento Clemente Mastella, da ieri sera sindaco della città campana. Le malelingue dicono che buona parte del merito del suo 62 e passa percento al ballottaggio contro il candidato del Pd ce l'hanno i grillini (lui dice di rappresentare l'Italia non grillina, ma fa niente).
Mastella è uno dei pochi ad avere vinto con l'appoggio di quel marasma di centrodestra di cui, ormai, non si capisce più niente: qui insieme, là no. Qui ti sego le gambe, là ti impianto una protesi. Ha dichiarato di avercela fatta nonostante le cattiverie dette in campagna elettorale. E io, in questo pomeriggio (finalmente) di sole, di cattiverie non ne ho proprio voglia.
Preferisco fare un copia/incolla della pagina di Wikipedia che racconta chi è il nuovo sindaco di Benevento. Così, per rinfrescare la memoria su un personaggio che, francamente, immaginavo nel buon ritiro della pensione politica. Ma che, invece, della politica non riesce a farne a meno. A modo suo? Lo dirà il tempo.

Da Wikipedia:

Il 14 ottobre 2007 Clemente Mastella viene iscritto nel registro degli indagati della procura di Catanzaro nell'ambito dell'inchiesta Why Not del sostituto procuratore Luigi De Magistris: l'ipotesi di reato è abuso di ufficio. Il ministro è sospettato di essere coinvolto in una "rete" costituita da politici, imprenditori, giudici e massoni finalizzata ad ottenere finanziamenti dallo Stato e dall'Unione europea.
Il coinvolgimento del ministro nell'inchiesta è motivato dai suoi rapporti con l'imprenditore Antonio Saladino. L'indagine coinvolge l'attività imprenditoriale di Saladino, titolare in passato di una società di lavoro interinale denominata "Why Not". Agli atti figurano, tra l'altro, intercettazioni di colloqui telefonici proprio tra Mastella e Saladino.
Il 16 gennaio 2008, dopo il provvedimento di arresti domiciliari nei confronti della moglie Sandra Lonardo, da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere, Mastella presenta le sue dimissioni da ministro, sostenendo di essere vittima, insieme alla sua famiglia, di un attacco della magistratura. Le dimissioni vengono respinte dal Presidente del Consiglio Romano Prodi[32] e nel tardo pomeriggio della stessa giornata le agenzie di stampa scrivono che anche lo stesso Mastella sarebbe indagato nell'ambito dell'inchiesta riguardante la moglie.
Il giorno seguente Mastella conferma le proprie dimissioni ed annuncia che il suo partito, l'UDEUR, darà "appoggio esterno" al governo. Il 21 gennaio Mastella modifica la propria posizione dichiarando di uscire dalla maggioranza e di voler votare no alla questione di fiducia[33]. Il governo Prodi cade il 24 gennaio in seguito al voto di sfiducia.
L'8 marzo dello stesso anno la Procura Generale di Catanzaro, che aveva avocato a sé le indagini dopo la dichiarazione d'incompatibilità del sostituto procuratore De Magistris, chiede l'archiviazione delle accuse ipotizzate a carico di Mastella, che esce dall'inchiesta. Nelle motivazioni, depositate il 1º aprile, il Gip ha affermato che "non vi erano neanche gli estremi per poter iscrivere Mastella nel registro degli indagati". L'ex Guardasigilli ha annunciato che intende "valutare tutte le possibili azioni giudiziarie e amministrative a tutela della mia persona" e dichiara di voler "chiedere il risarcimento dei danni a chi ha lavorato, sul piano giudiziario, quello mediatico e quello politico, per la mia eliminazione politica".[34].
Il 19 dicembre 2009 Mastella dà mandato ai suoi legali di citare in giudizio lo Stato italiano per l'archiviazione dell'inchiesta Why Not. La richiesta di risarcimento ammonta a 10 milioni.[35]
Il 26 febbraio 2009 appare sull'Espresso la notizia che il giudice GianDomenico Lepore ha inviato gli avvisi di chiusura delle indagini per l'inchiesta riguardante l'ex ministro della giustizia[36].
Nei mesi seguenti, la vicenda si è capovolta, giudicando illegittima l'avocazione dell'inchiesta Why Not, legittime le intercettazioni, e l'inchiesta di Santa Maria Capua Vetere è passata alla procura di Napoli che, in maggio 2009 ha ritenuto fondate molte delle accuse, rinviando a giudizio Clemente Mastella e sua moglie Sandra Lonardo.[37]
Nel marzo 2011 Clemente Mastella viene rinviato a giudizio, assieme alla moglie Sandra Lonardo, per tre capi di imputazione: truffa e appropriazione indebita, in merito all'acquisizione al patrimonio familiare di due appartamenti a Roma di proprietà dell'Udeur e della testata giornalistica Il Campanile; abuso d'ufficio, per l'assegnazione di incarichi da parte dell'Arpac[38].
Il 22 dicembre 2011 il GUP di Benevento Flavio Cusani rinvia a giudizio Clemente Mastella per corruzione nell'ambito dell'inchiesta "Iside Nova". L'indagine è condotta dal procuratore Antonio Clemente il quale sarà in seguito sostituito dal procuratore capo Giuseppe Maddalena.[39][40]

Critiche e aspetti controversi

Nel 1994 fonda il CCD di cui diviene presidente, e al cui progetto aderisce immediatamente Lorenzo Cesa, che viene messo a capo della segreteria politica. In quel periodo Cesa era, da pochi mesi, sotto processo (nonché reo confesso) per un importante caso di corruzione legato al ministero dei Lavori Pubblici.
Molto discussi sono i trascorsi rapporti di amicizia con l'ex-presidente del consiglio comunale di Villabate e condannato per mafia Francesco Campanella. Rapporti tanto stretti che Mastella fu testimone delle nozze del Campanella nel 2000. Alle stesse nozze fu testimone anche il presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa[41] e poi condannato in primo grado nel gennaio del 2008 a 5 anni di carcere per favoreggiamento semplice ad uomini vicini al superboss Bernardo Provenzano.
All'inizio del febbraio 2007 egli viene raggiunto da un avviso di garanzia da parte della Procura della Repubblica di Napoli. L'ipotesi formulata dagli inquirenti è quella di concorso in bancarotta fraudolenta per il fallimento del Napoli Calcio, dichiarato nel 2004 con sentenza del Tribunale di Napoli. L'iscrizione nel registro degli indagati rappresenta un fatto dovuto, dal momento che, all'epoca della commissione dei presunti illeciti (2002), Mastella era vicepresidente della società e membro del consiglio di amministrazione. Interpellato al riguardo, Mastella si è dichiarato estraneo al crac, sostenendo di non aver mai partecipato direttamente alla gestione della Società.

mercoledì 15 giugno 2016

Mi rubano in metrò. Ma nessuno vede niente

Succede a Milano, stazione di Porta Garibaldi. Non proprio una di quelle fermate della metropolitana deserte, per non dire sfigate. E' sfigata, invece, la ragazza che, nei tre minuti impiegati a raggiungere dal metò i binari delle ferrovie, viene derubata del cellulare che teneva nello zaino. Milano, stazione di Porta Garibaldi, metà mattina. C'è il pienone. Nessuno vede. E se vede non parla. Non fa niente. Tira dritto. I passanti voltano lo sguardo da un'altra parte. Non sono affari loro. Non vogliono casini. Hanno fretta. Come tutti, a Milano. Quando toccherà a loro, si lamenteranno che nessuno vede, nessuno parla, nessuno fa niente, tutti tirano dritto...ecc.ecc...
Ma, nel frattempo, non sono affari loro. Hanno fretta. Come tutti, a Milano.


lunedì 13 giugno 2016

Sallusti, il vero scandalo è un altro


 La conoscenza del pensiero del nemico sta alla base della cultura di ogni popolo. Per quello non mi scandalizza che Il Giornale abbia messo in vendita insieme al quotidiano Mein Kampf, il libro che raccoglie l'ideologia di Adolf Hitler.
Non mi scandalizza per varie ragioni. La prima, l'ho appena detta, perché ritengo che non si debba conoscere soltanto quello che ci è affine ma anche quello che dista anni luce dalle nostre idee. Più sarà ampia la nostra conoscenza, più potremo criticare quello con cui non siamo d'accordo. Altrimenti faremmo delle chiacchiere nostre basate su delle chiacchiere riportate da altri. Niente di più triste.
La seconda, perché non infrange la legge. Le librerie sono piene di volumi come questo, di biografie di dittatori, di saggi scritti da macellai. Nessuno si è mai lamentato. Vendere Mein Kampf non è illegale. E, credo, nemmeno inopportuno. Non è più sbagliato di allegare ad un quotidiano di informazione il libro delle ricette di suor Germana. Ciascuno fa le proprie scelte. Così come la famiglia Berlusconi ritiene una buona idea di diffondere il pensiero di Hitler, altri pensano sia meglio informare i lettori su come cucinare gli asparagi. Personalmente, credo sia più utile la scelta di Alessandro Sallusti: sapere come spiegare la storia ai miei figli dopo aver analizzato il cervello atroce di un boia aiuterà loro a non commettere gli stessi sbagli. Anche se si bruciano gli asparagi: c'è sempre una pizzeria d'asporto accanto a casa.

Mi scanzalizza di più che nessuno abbia notato (o per lo meno che non abbia avuto la stessa eco) la mossa, questa volta illegale, fatta dallo stesso quotidiano sabato 4 giugno. Cioè, il giorno del silenzio elettorale, alla vigilia del voto per il primo turno delle amministrative. Sallusti (e quindi Paolo Berlusconi, editore di Il Giornale e fratello dell'ex Cavaliere) ha pubblicato quel giorno un'intervista all'ex premier, Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia. Proprio quel sabato in cui non è permesso (lo dice la legge) fare campagna elettorale. Berlusconi (Silvio), che, probabilmente, sentiva già la puzza della sconfitta, si è prodigato in appelli al voto per il centrodestra. "Un voto per pagare tasse" recitava il titolone, acarattere cubitali, in prima pagina. Vedete voi. Questo sì è illegale. Ma nessuno ha alzato la voce.

Nessuno ha chiesto una sanzione (prevista dalla legge) per aver pubblicato un appello al voto nella giornata di silenzio. Nessuno, nemmeno l'Ordine dei Giornalisti (quel fantasma che vuole da noi solo soldi ma che, in casi come questo, volta sempre lo sguardo dall'altra parte), ha preso posizione.
Mein Kampf, in tedesco, significa "la mia battaglia". Forse è solo un caso che nell'arco di appena 10 giorni Il Giornale ne abbia pubblicate due di battaglie, unite dallo stesso bisogno di potere.

venerdì 10 giugno 2016

Qualcuno inventi una medicina per i politici disturbati


Anni fa, tra le altre cose, facevo il cantante in una discoteca. Credo di averlo scritto nel post di benvenuto. La foto sopra è dei primi tempi. Ma questo, chi mi ha visto di recente, l'avrà già capito. Bisognava arrotondare, e ho cercato di far fruttare (tutto sommato con un discreto successo) uno degli scarsi doni che il buon Dio mi ha regalato: la voce e l'intuizione per la musica. Una sera mi sono trovato coinvolto in una cena organizzata da Alleanza Nazionale. C'erano le elezioni amministrative, mi sembra (qui si va così tante volte alle urne che, alla mia tenera età, ho perso il conto).

 Ospite d'onore, l'allora fedelissimo di Gianfranco Fini, nonché coordinatore del Popolo della Libertà, Ignazio La Russa. Gnazio, per i simpatizzanti di Fiorello. Mi fece un autografo per mia figlia (era piccola) firmandosi come lei lo chiamava quando lo sentiva in televisione: "Brontolo". Lui faceva il suo mestiere di politicante, io il mio di cantante. Lui parlava e tutti stavano zitti. Io cantavo e qualcuno ascoltava. Finché, con aria solenne, uno dei suoi chierichetti, si avvicinò a me e mi disse: "Spegni la musica, l'onorevole ha mal di testa". Notare: non "mi scusi, Le dispiace...?" Alla fine, stavo lavorando. No. "Spegni la musica". L'ho abbassata. Dopo 10 minuti, un decibel alla volta, era al livello di prima. C'era qualche altra decina di persone in sala. Anche loro stavano pagando nella cena il prezzo del musicista. Nessuno si è più lamentato.


Mai infastidire un politico. Ha la precedenza su chiunque e su ogni cosa. Passa come un carro armato su chiunque e su ogni cosa. Che sia un povero diavolo che sta facendo il suo mestiere di cantante, non solo per lui, che sia una banda chiamata a suonare (non solo per lui, ci mancherebbe) l'inno di Mameli ad un evento ufficiale. Come a quello organizzato qualche giorno fa a Sulzano, ridente località in provincia di Brescia, sul lago di Iseo. L'occasione era l'inaugurazione di "The Floating Piers", una passerella galleggiante progettata, non a caso, dall'artista Christo. Non a caso, perché, a passarci sopra, l'impressione che si dà è quella di camminare sulle acque. Come se avessero chiamato Giacomo Della Porta a progettare l'ingresso di un palazzo.

 Ma torniamo al politico. Arriva il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni.Il Governatore, anzi: il Governatur. Niente auto blu (nemmeno verde-Lega) ma la locomotiva più antica d'Europa, un trenino d'epoca, risalente al 1883, rispolverato ad hoc da Trenord. Chissà se Maroni, a capo della Regione che è socio di maggioranza di Trenord, avrà notato la differenza tra quel trenino e quelli che, ogni tanto, portano qua e là i pendolari della Lombardia.
Bene, Maroni scende e ad aspettarlo, oltre alle autorità locali fasciate in tricolore (in tricolore!!!!) c'era anche la banda. Vuoi che arrivi il Governatur e non ci sia la banda? Ma scherzi? Ecco trombe e sassofoni, grancasse e clarinetti, flauti e tube, scherati per cotanto momento solenne. Che si suona? Beh, l'inno di Mameli, direi. Un pezzo della Pausini sarebbe stato inopportuno (forse meglio, tenuto conto dell'ospite, Van De Sfroos, ma non sembrava il caso...). L'inno di Mameli, aggiudicato.
Eccoli che stanno per partire con il "Tattararà tararà tararà tararatta tattattà"...che arriva il sindaco (la sindaco, la sindachessa...come devo chiamarla?). Chiamiamola per nome: Paola Pezzotti, eletta nelle liste di Forza Italia. Arriva e dice: "No, mi dispiace. L'inno di Mameli no, potrebbe indispettire il Governatore..."
I musicisti si guardano stupiti. "Come l'inno di Mameli no...? Non se ne parla, noi lo suoniamo". La sindaco/sindaca/sindachessa insiste: "Meglio un'altra marcia". Marcia proprio la musica che può sostituire un inno nazionale per l'indisponenza di un politico ad ascoltarlo.
Marcia e amara deve essere sembrata l'alternativa a cui la banda si è dovuta piegare per non indispettire il Governatur: la marcia "Primis", di Lorenzo Pusceddu, nato a Dolianova, provincia di Cagliari, e di Antonio Petrillo, nativo di...Salerno!
La banda protesta ma suona, anche se indispettita. Sassofonisti e flautisti, percussionisti e clarinettisti, si sentono presi per i fondelli. Come musicisti e come italiani. Maroni, invece, sorride, nel suo completo scuro acquistato con i soldi dello Stato italiano, che continua a pagargli un lauto stipendio da Governatur, nonostante lui vada avanti a sputare sul piatto da cui mangia. Era musicista anche lui, ma suonava blues. Altro che Mameli, roba da calciatori.

giovedì 9 giugno 2016

Votare "per" o votare "contro"


Prendo spunto di un articolo di Antonio Polito pubblicato sul Corriere della Sera. E' veramente sensato allearsi col miglior nemico per votare contro qualcuno anziché continuare a sostenere le proprie idee? Francamente, per usare un termine di berlusconiana memoria, mi sembra una "corbelleria". Una sorta di "adesso me la paghi" quando si è rimasti esclusi dai giochi. Come alle elementari, quando il compagno di banco ti negava un pezzo di merendina e tu, il giorno dopo, per ripicca, ti presentavi a scuola con la torta della mamma tutta per te. Guai a lui se te ne chiedeva un po'. Piuttosto la condividevi con quello che non hai mai sopportato.
Così succede oggi in politica. E scusate se gli attori sono già cresciutelli rispetto ai pargoletti delle elementari. Il concetto è lo stesso: appena si presenta l'occasione, si vendicano dei torti subìti e appoggiano uno che non c'entra nulla con le loro idee (parlo di chi ne ha almeno qualcuna) pur di punire l'avversario più ostile.

Ai ballotaggi delle amministrative che si teranno fra una decina di giorni, si parla di un enigmatico asse tra Movimento 5 Stelle e Lega Nord per sostenere i candidati grillini e mandare un messaggio (mica tanto) trasversale a Matteo Renzi. Oppure, laddove il duello è tra Pd e centrodestra, i grillini voterebbero un berlusconiano sempre con lo stesso obiettivo: dare non una spallata ma una pedata nel sedere a Renzi nel tentativo di far traballare il suo governo.
Naturalmente, visto che di politica si tratta, i leader dei vari partiti hanno già messo le mani avanti. I seguaci di Grillo dicono no agli inciucci, Matteo Salvini nega che esista un'alleanza concreta ma chiede di votare contro il Pd a Roma come a Torino, a Bologna come a Milano. Si parla di contatti segreti tra i due movimenti. Se pensate che verranno formalizzati, vi sbagliate di grosso.

Silvio Berlusconi, al quale vanno i più sinceri auguri di pronta guarigione, aveva già dato la sua indicazione, dopo la batosta al primo turno nella maggior parte dei municipi: dove non si presenta al ballottaggio un suo candidato, fedelissimi e simpatizzanti sono pregati di introdurre nell'urna una scheda bianca. Come duemila anni fa in casa di Pilato, all'uscita dei seggi verranno forniti dei teli per asciugarsi le mani.

E Renzi? Che può fare il povero segretario del Partito Democratico, bersaglio di ex amici ed avversari, se non quello che avrebbe fatto qualsiasi politico? "Se perdo le amministrative non me ne vado. Per me conta solo il referendum istituzionale". Quando si dovrà votare a quella consultazione, il presidente del Consiglio avrà il coraggio di ripetere le stesse parole?

martedì 7 giugno 2016

Quanto deve durare uno stupro perché sia punito?

Venti minuti non bastano. Di più, di più. Cosa vuoi che siano venti minuti di stupro per beccarti sei mesi di carcere? No, devi andare giù più pesante per passare sei mesi al fresco. Altrimenti la pena sarebbe troppo dura. Oddio, il gioco di parole è tanto facile quanto squallido. Non lo faccio. Mi vien da vomitare.


C'è un ragazzino di 20 anni in California, tale Brock Turner. Frequentava l'Università di Stanford. Dicono sia una ex star del nuoto. Ma come si può essere una ex star a soli 20 anni? Lo sanno solo i media che pompano (ahia, ancora...) il primo belloccio che vince un paio di gare. Oggi sei un mostro, domani sei nessuno.
Soprattutto se in preda all'alcol violenti una ragazza priva di sensi, dietro un cassonetto dell'immondizia. Lo schifo nello schifo. Ci ha dato sotto con brutalità finché un paio di ciclisti sono capitati nei paraggi, lo hanno fermato ed hanno chiamato la Polizia. Un gesto che ti fa cadere nei sotterranei dell'umanità. Anche se sei un'ex star. Anche se hai bevuto come un disgraziato. Anche se tuo padre è così imbecille da dire che 20 minuti son niente: "Come si fa a dare sei mesi di carcere a uno che ha commesso un reato in appena 20 minuti?" Come si fa, penso io, a dire una cosa così. Come si fa a non stare zitti, a non pensare che se la vittima fosse stata sua madre, sua moglie o sua figlia, mezzo secondo sarebbe bastato a infiammargli la giugulare.

 Come ha fatto, soprattutto, il giudice a non fare la stessa riflessione? Turner rischiava 14 anni. L'accusa, forse con addosso il costume di Babbo Natale, ne aveva chiesti appena sei. Meno della metà. Il magistrato, invece, ha ritenuto che l'essere entrambi ubriachi sia un attenuante. Bel messaggio: "Ragazzi, se volete commettere una violenza sessuale, prima scolatevi un paio di bottiglie insieme alla vostra vittima per passare meno tempo in galera". Altro urto di vomito. Ma non è finita.
Il giudice, Aaron Persky, ha ritenuto che il ragazzino fosse "troppo stressato dai media" e che, per questo, meritasse una ricompensa. Quanto basta per scatenare alcuni settori della società americana che sentono puzza di premio ad un bianco, bello e riccaccione. Se fosse stato negro? Mah, se fosse stato negro, credetemi, non staremmo qui a parlarne. Ecco. Ora vado davvero in bagno.



venerdì 3 giugno 2016

Proposta in Pakistan: picchiate la moglie ma poco poco


Con leggerezza. Appena appena. Giusto un pochino. Che ne so, una spintarella contro il muro, uno schiaffetto, una frustatina di niente. Mica ti farà tanto male. Quanto basta per farti capire che non devi più farmi arrabbiare in quel modo. Che devi obbedire quando ti dico, anzi ti ordino di fare qualcosa.
Vedi, amore. Non è un'idea mia quella di picchiarti quando non mi ascolti. E' stato il Consiglio dell'ideologia islamica di noi pakistani ad autorizzarmi a farlo. E vuoi che un uomo come me, ligio e osservante, fedele ad ogni regola che i Nostri Signori dettano con fatica, vada contro ogni tradizione? Amore, non me lo posso permettere. Cosa penserebbero di me?

Hai presente quando ti dico che devi vestirti in quel modo e tu, invece, fai di testa tua? O quando ti dico che a letto non è ancora il momento di dormire ma di farmi sentire quanto, finalmente, se ti impegni, sei femmina? O ancora: quando, dopo che mi hai fatto sentire come avevo bisogno io, ti dico di lavarti e invece mi rispondi, magari alzando la voce, che sei stanca? Solo perché hai dovuto servirmi dall'alba fino a notte fonda (che poi sarebbe il tuo dovere)? O quando, con una regolarità che non ho ancora capito, ogni mese perdi tutto quel sangue dicendo che ti fa male la pancia e non vuoi farti la doccia?

I Nostri Signori mi hanno detto che posso alzare le mani contro di te (non ti spaventare, solo in modo leggero). Loro dicono "per punirti". Io preferisco pensare che sia "per educarti". Ma senza farti male. Perché se esagero, domani non avrai più la forza di servirmi dall'alba fino a notte fonda. E mi dovrò arrabbiare ancora. Pensa se mi scappa la mano. Vero che nessuno dei due vuole questo?

Quindi, amore, vedi di fare quello che ti ordino. Ovvio che lo dico per il tuo bene. Non perdere tempo (prezioso per le mie esigenze) a guardare quelle inutili campagne chiamano "umanitarie" (ma cosa vorrà mai dire quella parola?) . Non guardare le immagini blasfeme di Fahhad Raiper, quel fotografo infedele che mostra delle donne pakistane sorridenti e orgogliose di sé perché fanno quello che una donna pakistana non dovrebbe mai fare. Cioè, quello che vogliono. Pensa, amore, che queste donne dicono addirittura che l'Islam non predica queste cose. Ma come si permettono di contraddire il verbo sacro del Consiglio dell'ideologia islamica? Chi si crede di essere quel Fahhad che, a soli 22 anni, infanga le nostre tradizioni in tutto il mondo?
No, amore, non ascoltare queste cose. Anzi, facciamo così: non te lo chiedo, te lo ordino. E sai che, se non mi ascolti e poi mi arrabbio, anche in modo leggero, dispiacerà a entrambi. Soprattutto a te.

Le immagini sono tratte dalla pagina Facebook di Fahhad Raiper, a cui porta il link che ho inserito. Appartengono alla campagna #TryBeatingMeLightly, promossa da questo giovane fotografo contro la proposta di legge del Consiglio pakistano dell'ideologia islamica di cui si parla nel discorso finto (ma purtroppo probabile) che ho scritto sopra.


lunedì 30 maggio 2016

Sara, uccisa dall'indifferenza

Credo ci sia una ferocia più grande di quella del singolo asassino che dà fuoco all'ex ragazza perché lei non lo vuole più. La ferocia più grande, quella che rende chiunque complice di un omicidio così squallido, è quella di chi volta la faccia dall'altra parte quando quella ragazza implora di essere aiutata prima di finire nelle mani del carnefice.
Ho già avuto modo di scrivere che l'indifferenza è l'arma più letale che esista. Verso chiunque. Si è dimostrato anche questa volta. Quando una ragazza ha chiesto aiuto ai passanti perché sapeva di avere i minuti contati e i passanti gliel'hanno negato.

Sara, la 22enne bruciata viva alla Magliana, ha pagato il prezzo della rabbia di uno squilibrato ma anche del menefreghismo di una società sempre più individualista. Una società che bada a se stessa, intenta a puntare il dito contro chi sbaglia ma codarda quando si tratta di intervenire in prima persona per evitare che accada quello contro cui punta il dito. Una società che, davanti al telegiornale, dirà: "Che schifo", ma che non avverte addosso quella puzza di marcio.
Non aveva tutti i torti Martin Luther King quando diceva: "Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti". Quel silenzio, quella capacità dell'uomo di dire davanti ad un fatto del genere "non sono fatti miei", brucia di più del fuoco appiccato a vivo su una povera ragazza di 22 anni. Forse, quando ha chiesto aiuto, pensava di vivere in un altro mondo. Forse, in fondo in fondo, mentre scrivo queste poche righe, penso anch'io che non sia così tardi per cambiarlo.

(Le foto sono tratte dalla pagina Facebook di Sara)

giovedì 26 maggio 2016

Champions, a Milano tutti si ispirano a Quevedo

Francisco de Quevedo Villegas è stato uno scrittore e poeta spagnolo nato nel 1560. Era di Madrid, come il Real e l'Atletico. Vestiva sempre di nero, come il Real e l'Atletico in trasferta. Non ebbe mai una relazione duratura, come alcuni calciatori del Real e dell'Atletico. Ebbe, però, a soffrire varie persecuzioni, come il Real e l'Atletico. Quando fu sospettato di aver preso parte ad una congiura, riuscì a fuggire travestito da mendicante senza essere riconosciuto grazie al suo perfetto accento italiano. C'è stata, dunque, l'Italia di mezzo ad un certo punto della sua vita. Come in quelle del Real e dell'Atletico, che arrivano domani a Milano per giocarsi, sabato sera, la Champions League.

Ecco, allora, i mercanti meneghini a fregarsi le mani e a odorare quel profumo di soldo facile che manca da quando è finita l'Expo, non tanti mesi fa. I prezzi di una stanza di albergo si sono moltiplicati anche per 10. Fino a 4.000 euro per due notti in un hotel che non li merita. Racconta il Corriere della Sera: "Secondo la rilevazione effettuata dal Centro Studi di Casa.it (www.casa.it), i canoni d’affitto nel weekend della finale (27-29 maggio), nei pressi dello stadio, registrano un aumento del 250% rispetto ad un qualsiasi altro weekend di giugno. In particolare, per un bilocale di 50/60 metri quadri la richiesta media parte da un minimo di 180 euro a notte, sino ad un massimo di 350 euro a notte, mentre c’è anche chi è disposto a offrire una sola stanza di casa per oltre 100 euro a notte. Se si vuole affittare un appartamento con vista sul Meazza, in questo caso occorrerà spendere almeno 250 euro a notte". Più il prezzo del biglietto, se sei fortunato a trovarlo sotto i 200 euro per non vedere gli omini della Lego dal terzo anello.

 Scriveva il madrileno Quevedo nel suo poema Poderoso caballero don Dinero:

 "Madre, io davanti all'oro mi umilio,
lui è il mio amante e il mio amato
perché, da vero innamorato,
è in giro giallo di continuo;
che sia doblone o ducato
lui fa sempre il mio volere,
il potente cavaliere,
don Denaro".

Personalmente, guarderò la partita in tv, di bianco vestito, con attorno gadget, sciarpe, bandiere e orpelli vari presi anni fa al Bernabéu e dopo una paella con amici, fatta (e offerta) rigorosamente dal sottoscritto.

martedì 24 maggio 2016

Renzi e la co.co.co.nvenienza

"Io se fossi un cittadino sceglierei una persona libera, non un co.co.pro di un'azienda milanese". Parola di Matteo Renzi, al videoforum che ha tenuto oggi sul sito Repubblica.it. Nulla da eccepire: anch'io, se fossi un cittadino, se il governo Renzi mi consentisse di esserlo, sceglierei di lavorare dignitosamente, non di essere costretto ad accettare un contratto spazzatura agevolato da Palazzo Chigi.
Sia chiaro: il presidente del Consiglio ha usato la metafora in un contesto politico, per dire che è meglio votare alle amministrative di Roma un partito consolidato anziché un provvisorio Movimento 5 Stelle. Ecco la citazione, per la cronaca: "Giachetti (il candidato del Pd al Campidoglio, ndb) ha scelto persone molto valide, molto competenti che formano la sua squadra. È l'esatto opposto di chi firma un contratto della Casaleggio come fosse un co.co.pro. Io se fossi un cittadino sceglierei una persona libera, non un co.co.pro di un'azienda milanese."
Che idea ha Renzi dei co.co.pro che il suo Jobs Act protegge a oltranza e dai quali trae vantaggio demagogico a ogni statistica dell'Istat sull'aumento dell'occupazione? Sono diventati di colpo un'espressione da usare per screditare un avversario politico perché valgono poco o niente? E allora: perché non li abolisce e non obbliga le aziende ad assumere, quanto meno a tempo determinato, pagando i contributi, quei ragazzi che tra i 25 ed i 30 anni vengono ancora trattati come impiegati a condizioni vergognose?
Mi fermo qui. Ho troppa rabbia addosso pensando ai figli della mia generazione e alle battute sconvenienti di chi vende speranze come prodotti contro la cellulite.

lunedì 23 maggio 2016

Bellen: vittoria ecologista senza farfallina

Il risultato del voto presidenziale austriaco, che ha premiato (seppur al fotofinish) l'ecologista Alexander Van Der Bellen e punito (sempre al fotofinish) l'ultranazionalista Norbert Hofer, propone almeno tre considerazioni.


La prima: Hofer sarebbe stato sconfitto dai voti degli austriaci che non vivono in patria. Cioè dai migranti. Quelli che, probabilmente capiscono le persone che vanno in caccia di fortuna altrove e che Hofer vorrebbe fuori dalle scatole. Un monito per i partiti di altri Paesi che condividono la stessa filosofia. Il populismo può funzionare nella propria cerchia, ma chi abita altrove ha sicuramente acquisito una mentalità molto più aperta. Speculare sull'immigrazione non basta a vincere le elezioni: ci vuole dell'altro, ci vuole più sostanza.
La seconda: al ballottaggio sono arrivati per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale i candidati che non appartenevano a nessuno dei grandi partiti tradizionali (socialdemocratici e conservatori). Altro avviso ai naviganti.

 La terza: Van Der Bellen non è stato un candidato che abbia legato molto con il popolo. Non ha il carisma dell'avversario, è stato molto cauto nei comizi, si è detto disponibile a governare per chiunque viva in Austria anche se non austriaco e ad impegnarsi per costruire gli Stati Uniti d'Europa. Eppure ha vinto. Domanda: Non è che è stato Hofer a perdere, con tutta la rabbia scaricata addosso allo straniero? Altro avviso...
L'Europa tira un sospiro di sollievo, anche se la vittoria di Van Der Bellen non risolve i problemi di Bruxelles. Evita, certamente, quelli che avrebbe generato il trionfo del Le Pen austriaco, primo fra tutti l'isolamento dell'Austria a livello internazionale. Ma il dato di fatto è che all'interno dell'Unione crescono le forze che pendono pesantemente all'estrema destra. Ieri era l'Austria ma la questione si porrà un domani non troppo lontano in Francia ed in Germania, dove la politica della Merkel in materia di accoglienza di rifugiati sta modificando gli equilibri alle urne. E in Italia? In Italia i tempi non sembrano maturi per una vittoria così strepitosa della Lega o dei partiti che ancora puzzano di fascismo. Certo è che, come in Germania, si potrebbe partire dalle amministrazioni locali o regionali per poi, piano piano, acquisire degli spazi più grandi e, soprattutto, decisivi in certe materie. Ricordiamo che l'allora esponente del Carroccio Roberto Maroni arrivò così alla poltrona più alta del ministero dell'Interno.

 Il vento che soffia verso l'estrema destra fa il giro del mondo e arriva anche in America, dove, secondo i sondaggi, Dondald Trump prende qualche punto di vantaggio su Hillary Clinton. Qui la roba si fa più seria. Fortuna che non è ancora detta l'ultima parola.

venerdì 20 maggio 2016

Pannella e il primo vero miracolo di Papa Francesco

Anni fa, avvicinare Marco Pannella allo Spirito era come pretendere di fare entrare il famoso cammello dalla cruna dell'ago. Papa Francesco ci è riuscito. La lettera che il leader dei Radicali, appena scomparso, ha scritto al Pontefice meno di un mese fa, e pubblicata solo oggi dal settimanale cattolico Famiglia Cristiana, ne è la testimonianza.
Già dalle prime due righe si capisce che, grazie a Bergoglio, Pannella aveva una dimensione diversa del Cielo e della terra. "Ti scrivo dalla mia stanza all'ultimo piano, vicino al cielo", precisa Pannella, da sempre allergico al potere della Chiesa e del Vaticano. Il "leone dell'Abruzzo" abbraccia il gesto di Francesco all'isola di Lesbo, dove il Papa si è recato il 16 aprile scorso a consolare i profughi arrivati dalla Siria, ad accarezzare la testa di donne e bambini per dire loro che non esiste soltanto l'astio al mondo ma che esiste anche una parola ed un sentimento che si chiama solidarietà.
Pannella si è innamorato di questo Papa non certo per quello che rappresenta ma per quello che fa. Per come si pone verso gli ultimi. Ecco il punto in comune tra il diavolo e l'acqua santa. Una passione, scrive ancora Pannella, che è "il vento dello Spirito (lo scrive con la "S" maiuscola) che muove il mondo". Quindi, la rivelazione: "Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scaricano".
Pannella ama il Vangelo, questo Vangelo. Quello a cui Francesco cerca di restare fedele, al di là delle pressioni delle lobbies vaticane. Se ci pensate, né più né meno che il Vangelo arrivato ai giorni nostri, al netto delle storpiature umane.
Può, dunque, il Vangelo (e non un uomo) conquistare un laico se chi ne è il supremo custode (in questo caso il Papa) ne rende testimonianza fino in fondo.
Ammetto una punta di commozione quando leggo le ultime parole di questa lettera, scritte in maiuscolo: "TI VOGLIO BENE DAVVERO, TUO MARCO". Tuo. Pannella a un Papa: "Tuo". E ancora: "Ho preso in mano la croce che portava Mons. Romero (l'arcivescovo salvadoregno ucciso nel 1980 mentre celebrava la Messa) e non riesco a staccarmene".

Non mi permetterei mai di entrare nella coscienza di un uomo che, ad un certo punto della sua vita, fosse anche l'ultimo, riflette sul senso della propria esistenza. Credo, comunque, che quella di Marco Pannella sia una testimonianza straordinaria che ci offre una doppia certezza. La prima, che nessuno è così laico da non vedere il bene semplice e immediato offerto da chi abbraccia una fede, qualunque essa sia. La seconda, che chi serve quella fede con totale e sincera umanità è in grado di smuovere il cuore di chi si ritiene estremamente laico. I grandi cardinali ed i piccoli parroci da Messa e rosario, spesso più censori che pastori, ne prendano nota.

giovedì 19 maggio 2016

Quando lo sport non dipendeva dalle bandiere

 Nei primi anni '90 è stato il re del ciclismo mondiale. Nessuno aveva fatto (nessuno lo ha più fatto se non grazie al doping) quello che ha fatto Miguel Indurain. Vederlo sfrecciare nelle cronometro, tenere il passo degli scalatori delle tappe di montagna, concedere la vittoria di una frazione all'avversario che lo aveva aiutato, esaltava i tifosi. In particolare, i tifosi spagnoli. Ancor di più i tifosi baschi, quelli che ritengono che la Pamplona di Miguelon facesse parte dei Paesi Baschi. Attendevano il passaggio di quello che in gergo televisivo si chiamava "il serpente multicolore", la carovana dei ciclisti. Attendevano di vedere, anche solo per pochi secondi, l'uomo che avrebbe vinto 5 Tour de France e 2 Giri d'Italia consecutivi. Lo attendevano con la bandiera spagnola e con la bandiera dei Paesi Baschi, la ikurriña. Nessuno ci faceva caso. Contavano le gesta del campione. Il resto era puro folklore, passione sportiva. La politica c'entrava ben poco, quasi nulla. Per noi spagnoli, Indurain era (e resta) un orgoglio nazionale. Di tutti. Quando suonava l'inno spagnolo sotto l'Arco di Trionfo di Parigi, nessuno fischiava. I baschi, come il resto degli spagnoli ammassati nella calca degli Champs Elysées, agitavano le loro bandiere. Non importava di quale colore fossero. Sul gradino più alto c'era il campione di tutti. Quello che alla domanda "basco o spagnolo?" rispondeva: "Cittadino europeo". 

 Vent'anni dopo, lo sport diventa in Spagna uno straordinario terreno di scontro elettorale. Domenica, allo stadio Vicente Calderon di Madrid, si gioca la finale della Coppa del Re che vedrà in campo il solito Barcellona (alla terza finale consecutiva) contro il Siviglia, fresco vincitore dell'Europa League (per la terza volta consecutiva). Si è già capito che quella che dovrebbe essere una grande festa del calcio spagnolo, da tempo in vetta all'Europa, diventerà un momento di polemica campanilistica.
E' successo che il prefetto di Madrid, tale Concepcion Dancausa, classe 1952, figlia di un politico fascista e militante del Partito Popolare del premier Mariano Rajoy, ha vietato ai tifosi del Barça di introdurre nello stadio la bandiera catalana. Perché? Secondo la Dancausa perché "si tratta di un simbolo di partito, illegale, che può causare conflitto durante l'evento". Nessuna questione politica, ne è sicura? "No, solo motivi di sicurezza". Non ne leggevo una così dall'ultima volta che Rajoy ha sparato una delle sue. 


Cosa penserà la signora "prefetta" quando i catalani, anche con le mani in tasca e senza sventolare la estelada, fischieranno come al solito l'inno nazionale in presenza di re Felipe VI? Pensa la signora "prefetta" di risolvere così l'astio tra indipendentisti catalani e nazionalisti spagnoli a un paio di settimane dalle elezioni? Crede davvero la signora "prefetta" che questa sua decisione non serva, piuttosto, ad accendere gli animi dei tifosi del Barcellona, indipendentisti come pochi (caricati anche da alcuni giocatori blaugrana)?

 In effetti, il primo risultato che la "prefetta" ha ottenuto è la rinuncia a partecipare all'evento da parte del presidente della Catalogna Carles Puigdemont in segno di protesta. Sia chiaro, tutti se ne faranno una ragione. Soprattutto se aveva intenzione di sghignazzare, come fece l'anno scorso il suo predecessore Artur Mas accanto al re, mentre i catalani fischiavano l'inno prima della partita (a sinistra nella foto sopra con Felipe VI ed il presidente della Federcalcio spagnola Angel Maria Villar).
 La verità è che nessuno ha mai avuto il coraggio (o l'interesse economico) di buttare fuori dalla competizione quel club che deride il resto del Paese per poi intascare il bottino della vittoria. Io non ricordo una finale di Coppa Italia in cui sia stato fischiato da una qualsiasi tifoseria, per quanto fosse secessionista, l'inno di Mameli. I catalani ci hanno preso gusto. Lo hanno fatto negli ultimi due anni, lo ripeteranno domenica sera. Non ti identifichi con questo Paese? Fuori dalle palle, anzi: fuori dai palloni. Via dai tornei nazionali, via dalla Lega Calcio. Via. Fuori.
Mi fischi l'inno davanti al re? Multa (e accusa di vilipendio) e fuori. Ti può piacere o meno la monarchia, ti possono essere più o meno simpatici i Borboni, ti può risultare disgustosa la barba di Felipe. Ma queste sono le regole, amico mio, finché continui a usare una mano per sbandierare la secessione e l'altra per intascare i soldi dello Stato o, come in questo caso, degli sponsor e dei diritti tv. Le regole si riassumono in una parola: rispetto per l'avversario in campo e per i connazionali. Se non sei in grado di garantirlo, fuori. Ma del tutto. E per sempre. Non mi dà fastidio la estelada: vietarla mi fa ritornare ai tempi dei proibizionismo franchista. Mi dà fastidio, piuttosto, l'atteggiamento ipocrita di chi la agita al vento della convenienza. E anche l'atteggiamento della politica che pensa di farci credere di usare la mano dura sulle stupidate anziché sui veri problemi di un Paese senza governo ormai da sei mesi.


mercoledì 18 maggio 2016

Trump, il Macahan del 2000


Alla fine degli anni '70, quando la pelle cominciava a puzzarmi di adolescente, vedevo in bianco e nero una serie western che si chiamava Alla conquista del West. Sì, so che l'hanno passata anche in Italia. Il protagonista si chiamaba Zeb Macahan (all'anagrafe James Arness). Aveva l'aria del duro. Perennemente a cavallo, era il padre-padrone della sua famiglia. Decideva lui cosa era lecito e cosa non lo era nel suo territorio. E chi usciva dai suoi schemi pagava caro lo sgarro. Un vero maschio, niente da dire.

 "Io sono la legge", insomma. Nulla è cambiato, 40 anni dopo, nella testa di Donald Trump. Immagino anche lui perennemente a cavallo, senza i baffoni di Macahan ma con la stessa aria da padrone del territorio. La chioma bionda nascosta nel cappello, il fazzoletto sudato al collo al posto della cravatta firmata, gli stivali in cuoio al posto delle scarpe in pelle umana. E sugli stivali, gli speroni con cui farà imbizzarrire il mondo quando siederà sulla sella più prestigiosa, quella dello studio ovale della Casa Bianca. Credo che Trump si veda già così. Il grande sceriffo del pianeta. Il vero maschio. Il solo, l'unico ad avere il diritto di dettare legge. La sua di legge.


Chi saranno i suoi scagnozzi? Un nome ce l'ha suggerito oggi. Quel nome che qualsiasi governante democratico escluderebbe a priori dalla propria lista degli alleati ma per il quale Trump avrebbe già scelto un cavallo da affiancare al suo: il presidente della Nord Corea Kim Jong-Un. Quello che minaccia l'Occidente con l'atomica. Quello che prese il potere a Pyongyang non ancora trentenne ma credendosi il più potente ed il più veterano dei dittatori del mondo mondiale. Quello che crede di avere sempre dalla parte del manico la padella su cui arrostire i propri nemici. Ecco, quello potrebbe essere uno dei migliori compagni di conquiste del Grande Sceriffo Donald Trump.

 Più indietro, in sella ad un cavallo un po' più malconcio, ci potrebbe essere Matteo Salvini, che non ha nascosto la propria simpatia per l'uno e per l'altro. Non è ancora all'altezza di cavalcare un purosangue, ma basta farsi le ossa (e i glutei) per imparare. A lui potrebbe spettare il lavoro sporco di sparare sull'Europa che l'americano, il coreano e l'italiano odiano a morte. Ma che a Salvini, per ora, garantisce un lauto stipendio ed un successivo vitalizio già dopo cinque anni (5!!) di lavoro (si fa per dire).
 Quale sarà il ruolo di Vladimir Putin se Donald Duck (pardon, Trump) vincesse le presidenziali americane? Il magnate newyorkese ha espresso più di una volta apprezzamenti verso "un uomo così rispettato dentro e fuori la Russia". Putin, a sua volta, non ha risparmiato elogi nei confronti di "un uomo fiammeggiante e senza dubbio di grande talento. Non sta a noi giudicare i suoi meriti ma agli elettori statunitensi. Sostiene di voler far balzare a un altro livello le relazioni con la Russia. Come potremmo non vedere favorevolmente questa prospettiva?” Inoltre, Putin ha riavviato i contatti con Kim Jong-Un. Il triangolo l'avete considerato?