venerdì 29 aprile 2016

Essere dittatore e figlio di puttana


Alcune semplici parole, anche un solo articolo indeterminativo, possono cambiare il senso di un appellativo. Ad esempio, "un figlio di puttana" è quello che, deliberatamente, segue il proprio interesse calpestando, rinnegando e danneggiando chiunque. "Un figlio di una puttana", invece, è quello nato dalla relazione tra una prostituta e chissachi. Il presidente siriano, Bashar Al Assad, appartiene al primo caso. Assad è un figlio di puttana.
Evitare ogni contatto con gli altri nella corsia di un ospedale perché ci si vergogna di sapere che la madre è stata leggera di costumi e ti ha abbandonato è da "figli di una puttana". Mandare i propri jet a radere al suolo quell'ospedale è da figli di puttana. Come uccidere l'unico pediatra rimasto in quella struttura sanitaria di Aleppo, la città più castigata dalla guerra civile siriana, dove, da oggi, nessuno sarà più in grado di curare i bambini vittime dei bombardamenti. Che siano figli di una puttana o della più santa donna della Siria. "La Santa", Al Quds, si chiamava l'ospedale gestito da Medici senza Frontiere. Ma forse sarà un caso.
Ad Aleppo, nell'ultima settimana, hanno fatto fuori almeno 200 civili. Un quarto delle vittime sono bambini. Nemmeno Erode, nella strage degli innocenti, era riuscito a fare di peggio.
Un figlio di puttana, anche se di alto livello, non riesce a compiere da solo orrori come quelli portati a termine da Assad. Ci vogliono dei complici. Attivi o passivi. E Assad ce li ha. Eccome se ce li ha.
Non è complice solo chi collabora concretamente alla buona riuscita di un crimine. Ma anche chi non fa nulla per evitarlo.
All'Occidente manca il coraggio di porre fine a questa guerra civile. Manca il coraggio di affrontare un personaggio spregevole, un assassino, vincendo la paura. Assad sa di avere in pugno l'Europa e l'America, spalleggiato dalle minacce atomiche degli alleati. E agisce di conseguenza, da figlio di puttana. Spazzando via il nemico. O futuri nemici, visto che alcuni di loro sono così piccoli da essere ancora innocui. Meglio portarsi avanti. Tanto Assad, il figlio di puttana, sa che nessuno lo fermerà.

giovedì 28 aprile 2016

Ma si può lavorare (e viaggiare) così?

Poche battutte per commentare questa video inchiesta sulle condizioni in cui si viaggia e si lavora sui treni della Lombardia. L'ho trovata sul sito Corriere.it e mi sembra interessante proporvela oggi. Le immagini e le testimonianze che potete vedere e sentire non hanno bisogno di ulteriori commenti. Semmai di un paio di considerazioni, a rafforzare il contenuto del filmato.
La prima. Sono pendolare da 16 anni e mi sono lamentato molto spesso di un servizio scadente, sporco e inaffidabile. Ma non ho mai tollerato la mancanza di educazione da parte dei passeggeri. Se questa mancanza di educazione supera la soglia che la divide dalla delinquenza, ritengo che, in mancanza dei mezzi umani che azienda e Stato non sono in grado di garantire ai capitreno (i soldi si troverebbero nei bonus dei manager, ad esempio), debbano essere gli stessi passeggeri ad intervenire. Per difendere non solo il proprio interesse di arrivare al lavoro o di tornare a casa in orario, ma per difendere anche il diritto di un dipendente delle ferrovie di avere una buona giornata, come tutti quanti, senza rischiare il fisico.
In 16 anni ho imparato che quasi mai (dico quasi) è un capotreno a farci arrivare in ritardo, ma un sistema che non funziona. Per negligenza e per pigrizia. Chiunque sarebbe licenziato solo per possedere una di queste due perle. Quindi, un capotreno (perdonate se almeno in questo sono all'antica, ma per di più se è donna) non deve mai subire un'aggressione, verbale che fosse, davanti all'indifferenza (o peggio, alle proteste per il ritardo) dei passeggeri.
La seconda considerazione che mi è venuta spontanea guardando il video. Ritengo scandaloso che i manager di Trenord (gli unici responsabili del sistema e percettori dei bonus per non farlo funzionare) vietino i loro capitreno, sotto la minaccia del licenziamento, di raccontare in quali condizioni sono costretti a lavorare. Guardate le immagini e sentite le scene. Se uno dei vostri figli facesse quel lavoro in quelle condizioni, non vi salirebbe il crimine alla testa? Un anno fa, uno dei cosiddetti "controllori" ha rischiato un braccio in un'aggressione a colpi di machete da parte di un imbecille. Senza che nessuno lo impedisse. Deve forse stare zitto?


mercoledì 27 aprile 2016

Una bomba atomica iraniana che rompe gli schemi



Bella è bella, non c'è che dire. Ha i tipici tratti mediorientali che farebbero innamorare qualsiasi medioccidentale. Gli occhi scuri, l'espressione della donna fin troppo sicura di sé. Del resto non parlo perché rischierei di cadere sul banale. E' fin troppo bella. Ed è l'esempio della donna che ha superato gli schemi di un Paese a dir poco rigido per fare il mestiere che più le appartiene: la modella.
Si chiama Elham Daliri. E' nata a Teheran, la capitale di quella repubblica islamica che, secondo i rigidi dettami degli ayatollah, ormai in via di estinzione, non avrebbe dovuto fare fortuna grazie alla sua bellezza. E invece la caparbia Elham la fortuna l'ha fatta eccome. Senza rinunciare alle sue origini. 30 anni, laureata in architettura e filosofia all'Azad University (tra le più prestigiose al mondo), ha deciso ad un certo punto di comunicare questi due concetti attraverso il proprio corpo, diventando modella.  

Dopo una lunga carriera nelle capitali del glamour mediorientale (un appuntamento su tutti l'Arab Fashion Week di Dubai), Elham ha fatto un salto di qualità in Italia, presentando a Milano, nel flagship di Trussardi, a due passi da piazza della Scala, la nuova linea di smalti Fedua, il marchio emergente lanciato dai giovani bresciani Luca Gonzini e Serena Archetti. La fortuna nelle sue mani. Anzi, nelle sue unghie. Quelle con cui ha lottato per arrivare. Per arrivarci.
 La scelta di Fedua non è stat casuale. Proprio in Marocco Gonzini fu colpito dai colori dei cosmetici usati nel Paese nordafricano dalle donne, prodotti con sostanze naturali come l'olio di Argan, quella foresta che che un tempo copriva vaste superfici dell'Africa del Nord, e che oggi si estende per circa 800.000 ettari nel Sud del Marocco, nella pianura del Souss. Pensate che nel 1998 l'Unesco ha dichiarato l'area delle foreste di argania Riserva della biosfera. E che qui lavorano cooperative di donne dedite alla raccolta dei frutti assicurando la protezione e la riforestazione di queste piante. Uno scenario naturale di incredibile bellezza raccolto in poche gocce di olio. Roba da inebriarsi solo a immaginarlo. 

Adesso è la volta dell'Iran, un Paese goloso di fashion, style e design occidentale, soprattutto made in Italy. Un Paese che sta tentando di voltare pagina valorizzando ogni suo talento. Come quello di Elham, testimonial perfetto non solo di un'azienda di cosmetici ma anche di quella parte di società iraniana che vuole lanciare al mondo un messaggio forte e chiaro: non guardate l'Iran come un nemico, ammirate anche la sua bellezza.

Rivoglio la mia vita, please


C'era un tempo in cui mia madre mi affidava ai vicini di pianerottolo quando doveva andare a fare la spesa o a fare qualche altra commissione. La signora Gertrudis e il signor Metodio (non accetto critiche sui nomi, che se comincio con i cognomi italiani ci ribaltiamo dalle risate), abitavano nell'appartamento di fronte al nostro, al terzo piano, il penultimo di un modesto condominio, al numero 28 della calle Velazquez di Palencia, dove la strada era il posto più sicuro in cui giocare insieme ai ragazzini di tutto l'isolato. Mio padre lavorava come impegato pubblico e, nei ritagli di tempo, come agente di assicurazioni, per garantire alla famiglia (moglie e sei figli) la cosa che più ci interessava: la serenità. Ci aiutava l'abuela, la nonna Juana, mamma della mia mamma. Juana la loca, perchè l'ultimo dell'anno del 1976, quattro mesi prima di lasciarci, con la casa piena di nostri amici (eravamo una trentina), si alzò con il peso dei suoi quasi 94 anni alle 5 del mattino chiedendo: "Chi vuole la cioccolata calda?" La cioccolata dell'abuela era un'istituzione a casa mia. Come lei. I nostri amici erano felici. Della cioccolata e, soprattutto, di lei.
La signora Gertrudis ci accoglieva in casa sua, il pavimento in marmo, l'arredamento semplice. Ci offriva dei biscotti. Ricordo ancora il suo sorriso in quella bocca stretta. Ricordo che, al funerale di mio padre, 10 anni fa, fu il suo il primo volto che vidi all'uscita della chiesa. Era in prima fila, come quando doveva aiutare mia mamma.
Sua sorella, la signora Onesima, abitava al piano terra. Pettegola doc, ma ci voleva bene.
Ricordo i discorsi del signor Metodio, le sue lezioni di buoncostume, i suoi avvertimenti: "Pero cuidao, eh. Cuiiidao!" Attenti, insomma, ai pericoli della vita.
Suonava la chitarra in una banda. Sempre lo stesso ritmo. Ma a lui piaceva.
A quei tempi, le figlie della signora Teresa, che abitava al secondo piano, venivano a casa nostra il sabato sera a vedere il film che davano in tv, in bianco e nero. Avevano meno di 20 anni (le vicine, non i film). A me sembravano grandi: io ne avevo sempre 10 in meno. Me ne stavo sulla poltrona a giocare con le scatole di cartone, ad infilare quelle più piccole in quelle più grandi. Del film non capivo nulla. Di loro, che avrei voluto diventare grande in fretta.
Erano i tempi in cui papà ebbe una grave emorragia e, per quel che ci disse dopo, fece un viaggio di andata e ritorno in Paradiso. Quel giorno, tornando da scuola, mia sorella non mi fece entrare in casa e mi disse: "Vai dai vicini". C'era sempre un punto di riferimento, sia per andare a fare la spesa, sia per i casi più gravi.
Rivoglio questa vita, per me, per le mie figlie. Rivoglio la fiducia nel prossimo. Rivoglio quella sensazione di comunità, a cominciare dai 20 metri quadri che ci circondano, nei quali stentiamo ad entrare. Rivoglio lo sguardo rassicurante del vicino che ho trovato quando ero piccolo e quando, 35 anni dopo, piangevo la scomparsa di mio padre. C'era davanti a me sempre lo stesso sguardo. Rivoglio il tempo in cui non esisteva solo l'innocenza dei bambini ma la sicurezza, e non la malignità, dei genitori che li facevano stare insieme. Rivoglio la possibilità di cadere mentre gioco senza che il genitore di chi mi ha fatto cadere chiami la Polizia. Rivendico il diritto di vivere nel modo più spontaneo. Perché non capisco come proprio noi, la generazione cresciuta con le varie signore Gertrudis, abbiamo fatto largo alla diffidenza anziché insegnare ai nostri figli a guardare le loro radici con maggiore tenerezza.

martedì 26 aprile 2016

Trump-Salvini, Stati Uniti della Padania


Una faccia di circostanza e una faccia emozionata. Quella a sinistra, la faccia di Donald Trump, somiglia a quella di chi sta per dire "avanti il prossimo selfie, prego". Quella a destra (sempre a destra, per carità), la faccia di Matteo Salvini, ricorda quella di chi incontra il proprio idolo, che ne so, Bruce Springsteen, Morgan Freeman (no, scusate, questo è nero. Meglio Robert Redford), Diego Armando Maradona. Quella faccia sembra che stia per dire: "Tempo due secondi e la pubblico su Facebook, i miei amici moriranno dall'invidia".
Trump e Salvini insieme. Una foto che tradisce l'emozione di uno solo dei due protagonisti, il leader della Lega Nord. E a pensarci bene, mettendo a fuoco le lenti del prismatico che punta verso Filadelfia, dove due dei più intransigenti politici della scena mondiale si sono parlati per una ventina di minuti, si vede e si capisce che Salvini ha tutti i motivi per gongolare.
Il condottiere del Carroccio è stato, infatti, il primo leader del centrodestra a stringere la mano del futuro candidato dei repubblicani alla Casa Bianca. E' volato negli Stati Uniti bruciando perfino il sosia del tycoon, Silvio Berlusconi (vedi mio post del 2 marzo). Si è presentato come il legittimo interlocutore della destra italiana. A nessuno era venuto in mente una mossa come questa. A Salvini sì. Peraltro, in un momento di gloria.
Forse non è un caso che l'europarlamentare italiano abbia scelto questi giorni per recarsi da quello che potrebbe diventare il prossimo presidente americano. Consolidato il fidanzamento all'ombra della Tour Eiffel con Marine Le Pen, lo scorso fine settimana Salvini ha visto virare verso l'estrema destra l'Austria e la Serbia. Ha annusato l'odore di anti-immigrato che si sta diffondendo in Europa, di fronte all'invasione barbarica che arriva dalla Siria e dalla Libia sulla quale Bruxelles appare ancora incompetente. E ha detto: "Ora o mai più".
                                                (dall'account di Matteo Salvini su Twitter)

Valigia (di pelle, non di cartone) in mano, spilletta di Alberto da Giussano al bavero (l'avranno capito negli Usa chi era?), pochette verde sul taschino della giacca, Matteo da Milano ha attraversato l'Atlantico per portare il proprio sostegno a Trump, accusando Barack Obama e Angela Merkel di "buonisti disastrosi" e pompando la "legalità" e la "sicurezza" propagandate dal magnate americano. Si è fatto fotografare con in mano i cartelli pubblicitari a sostegno di Trump, ha parlato con i suoi seguaci (propongo una gara di inglese tra lui e Renzi). Si è posto come il garante della politica di Trump al di qua dell'oceano, soprattutto in tema di immigrazione. Tant'è che lo stesso Trump gli ha augurato "di diventare presto il premier italiano". E, chissà, spazzata via la concorrenza "buonista e disastrosa", da leader del governo italiano a referente europeo per gli States i passo sarebbe breve. Chiamalo fesso.
                                                 (dall'account di Matteo Salvini su Twitter)

Poco più che quarantenne, Salvini ha l'età giusta per fare il passo definitivo nella sua carriera politica. E' riuscito a mettere alle corde Silvio Berlusconi, al quale potrebbero non bastare le solite risorse di marketing e populismo per reggere il colpo anche questa volta e mantenere la leadership del centrodestra. E' riuscito a far crescere il suo movimento, a farlo risorgere dalle ceneri in cui era rimasto sepolto dopo dubbie gestioni e squallidi scandali. Ora è riuscito anche ad avere da Donald Trump sul passaporto diplomatico il visto di benvenuto. Prima di chiunque altro. Chapeau.



lunedì 25 aprile 2016

Sud Sudan, dove le strade non hanno un nome


C'è un'arma di distruzione di massa molto più potente di quelle sganciate dagli aerei militari o sparate dai cannoni: la fame. Quest'arma si sta rivelando, purtroppo, estremamente efficace in uno dei conflitti più drammatici (e più dimenticati) che ci siano in corso, la guerra civile in Sud Sudan. Uno scontro fratricida tenuto in pugno da tre anni dall'esercito di Juba, la capitale di questo fazzoletto dell'Africa orientale. I militari, tra una violenza sessuale e l'altra a danni di adolescenti e bambine, trovano il tempo anche per ostacolare ogni arrivo di viveri destinati ai civili, sbarrando strade e chiudendo campi di rifugiati. I più fortunati cercano di intrattenere lo stomaco con delle foglie di albero bollite, degli insetti o delle bacche. Con scarsi risultati. E pensare che sotto i loro piedi c'è la terza più importante riserva di petrolio del Continente Nero.

La situazione è complicata. Secondo l'UNHCR, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, nonostante sia stato firmato un accordo di pace tra il governo di Juba del presidente Salva Kiir (a sinistra nella foto) e le forze ribelli del generale Riek Machar, continuano i combattimenti con le decine di fazioni di guerriglieri nei diversi stati del Paese, soprattutto nelle regioni petrolifere del Nord. Più di 96 mila persone stanno fuggendo dai conflitti, cercando rifugio nella parte nord occidentale del Paese o provando a raggiungere le nazioni confinanti. L'emergenza profughi non è un monopolio dell'Europa.
Come racconta l''inviato del quotidiano El Mundo Alberto Rojas , il Sud Sudan è in bancarotta. I mezzi per estrarre il petrolio sono talmente ancestrali che risulta più conveniente lasciare il crudo dov'è piuttosto che trivellare. La benzina, unica fonte di energia, scarseggia. Tant'è, racconta il giornalista spagnolo, che perfino il Parlamento è rimasto al buio qualche giorno fa pochi secondi prima del discorso del presidente. A volte il destino...
Lo schema tracciato da questo conflitto è quello già visto in altre situazioni simili: i militari al potere si arricchiscono. I ribelli, apparentemente alla ricerca di un accordo di pace, cominciano a sedere accanto ai signori della guerra sulle poltrone di un governo di unità nazionale. Un governo che può far sperare nella fine del conflitto, ma la cui fragilità porterà o ad uno scontro ancora più sanguinoso o ad una tregua figlia dell'accomodarsi dei ribelli stessi.
La popolazione civile paga il prezzo più alto di questo caos e dei suoi effetti collaterali. Giampaolo Pansa, su Il Giornale ci ricorda che, venerdì scorso, uomini armati di etnia Murle, provenienti dal Sud Sudan e, a quanto pare, con la compiacenza del governo di Juba, sono entrati nella regione etiope della Gambella e hanno assaltato 13 villaggi abitati da famiglie di etnia Nuer. Il bilancio dell'incursione è stato di oltre 208 persone uccise, 100 rapiti tra donne e bambini e 2000 capi di bestiame razziati. La risposta del'esercito di Addis Abeba è già pronta. Questione di ore e si soffierà su un fuoco che rischia di provocare una delle peggiori catastrofi umanitarie del XXI secolo, di fronte alla quale nessuno ha il tempo, i mezzi e la voglia di reagire.
Resta ancora lontano il sogno cantato da Bono Vox (se avete tempo, consiglio anche la versione degli U2 con il Soweto Gospel Choir) di poter andare "dove le strade non hanno un nome" e di "sentire il sole sul volto, vedere la polvere sparire senza lasciare tracce contruendo solo amore". Mai smettere, però, di inseguire i propri sogni. Non si sa mai che un giorno qualche generazione possa vederlo realizzato.

Bentornati


Saranno stati i disastri che ha visto in questi ultimi mesi a mandarlo in tilt. La manutenzione straordinaria del mio prismatico si è prollungata più del previsto ma, grazie al Cielo, ora funziona di nuovo. Sono sicuro che non mi piacerà tutto quello che vedrò attraverso le sue lenti, ma spero continui a regalarmi, e a regalarvi, qualche spunto di riflessione.
Grazie a chi mi ha scritto in questi giorni perché aveva notato la mia assenza.
Grazie a chi continuerà a guardare insieme a me quello che il mio prismatico cattura in giro per il mondo.
Vi ricordo che sono sempre aperto ai vostri suggerimenti, commenti e, perché no, critiche attraverso Google+, l'indirizzo e-mail carlosarija@hotmail.com, la pagina Facebook https://www.facebook.com/carlos.arijagarcia, il mio account su Twitter https://twitter.com/carlos_cgarcia o il mio profilo LinkedIn.
A presto.

venerdì 22 aprile 2016

Fine dei lavori in corso


Amici,
dopo alcuni giorni di inevitabili lavori in corso, Il Prismatico di Carlos Garcia tornerà lunedì 25 aprile. Altroché Liberazione: torno, torno...
Grazie a chi riprenderà a seguirmi.
Arrileggerci.

Carlos

mercoledì 13 aprile 2016

Nubili e over 25: le cinesi che "avanzano"


"Zitella" o "tardona". In Italia sono sinonimi poco gradevoli (direi pure, per restare educato, sconvenienti) di donne che o non si sono mai sposate o sono state portate all'altare quando il fantasma della menopausa piombava, irrimediabilmente, su di loro. Ma, al di là delle convenzioni sociali, restano donne libere di decidere se e quando maritarsi. Tutt'al più subiscono qualche commento sarcastico dalla vicina di casa che, lei sì, si è sposata giovane e ha messo al mondo prole (come e perché, non importa) e si sente a posto con la coscienza e con il condominio, puntualmente da lei informato su quanto succede in casa altrui. E' la reputazione voluta dalla massa, e non i politici, a governare la sua, almeno apparentemente, immacolata ed esemplare vita.


Di "zitelle" e "tardone" è piena la nostra società, grazie, appunto, a quella libertà di scelta a cui mi riferivo prima. Non è così in Cina, dove dei saggi proverbi che citavo nel post di ieri sembra essere stato dimenticato quello più importante, quello dettato dal più noto filosofo nato all'interno della Grande Muraglia: Confucio. Il suo assioma, reso popolare in Italia dagli Squallor al di fuori della Grande Muraglia, lo conoscono tutti. O quasi: c'è sempre la signora del condominio che non ha mai ascoltato né Confucio né tantomeno gli Squallor.


In Cina, a 25 anni, sei già considerata una zitella. Peggio ancora: il disonore della famiglia. Di più: una donna che avanza, che potrebbe anche non esistere. Superata questa età, le donne che non hanno un marito fanno fatica ad uscire di casa senza alzare lo sguardo dal pavimento per la vergogna. Vengono considerate "incomplete", perché non hanno ancora contribuito alla regola di procreare. Il colmo è che in Cina, per legge, ti facevano fare fino all'anno scorso un figlio solo. Non ne poteva fare due una mamma felicemente sposata, lasciando stare la povera crista che non ha ancora trovato l'amore della sua vita?


L'amore. In tante devono rinunciare all'amore per maritarsi con il primo uomo disponibile a salvare la sua dignità di donna ed il cuore (nel senso di organo motorio che tiene in vita chiunque) del padre. A Shanghai esiste addirittura una sorta di "mercato del matrimonio" dove genitori e figli espongono i propri annunci, specificando cosa fanno, quanto guadagno, il tipo di casa e di macchina che hanno. Una sorta di "agenzia matrimoniale di noialtri". Un mercimonio simile a quello descritto da Fabrizio De Andrè ne L'infanzia di Maria: "E si vuol dar marito a chi non lo voleva / si batte la campagna si fruga la via / popolo senza moglie uomini d'ogni leva / del corpo d'una vergine si fa lotteria". Eliana Monti farebbe affari d'oro.


C'è una campagna che puzza parecchio di trovata pubblicitaria ma che, se non altro, porta alla luce questo problema e cerca di sensibilizzare le donne cinesi affinché si ribellino. L'iniziativa, promossa dall'azienda giapponese di cosmetici SK-II, si chiama Change Destiny. In un video di circa cinque minuti, alcune donne, soggiogate da questa cultura, raccontano la loro storia, le loro frustrazioni e le loro aspirazioni di cambiare, appunto, il proprio destino. E combattere "la notte nella mente, una notte senza luna né stelle, chiamata ignoranza". Confucio.

Ps: non vi dico la fatica per trovare qualche foto decente per questo post. Digitare su Google "giovani cinesi" e trovare un'immagine poco ambigua è un'impresa.



















martedì 12 aprile 2016

Il Brennero, i muri e i "plovelbi" cinesi



Plovelbio cinese dice: "Quando il dito indica la luna, lo stolto gualda il dito". L'antica saggezza di una repubblica che, non a caso, si chiama "popolare" torna utile anche nei giorni nostri.


Giorni in cui si alza un muro per bloccare gli immigrati al confine italo-austriaco, di fronte al quale un candido assessore del Comune di Brennero, Giovanni Pederzini, guarda con enorme concentrazione il dito e riflette candidamente: "Speriamo non fermi merci e turisti". Grande Pederzini: ha capito il problema alla radice. Alla radice del dito, cioè all'altezza del metacarpo. Oltre, a quanto pare, non ce la fa.


Plovelbio cinese dice: "Non è possibile applaudile con una mano sola". Così come non è possibile affrontare il fenomeno dell'immigrazione di massa in Europa in modo unilaterale. L'Austria alza un muro per non far entrare i profughi dall'Italia. La Francia ci ha provato a Ventimiglia. La Svizzera (beata lei) non fa parte dell'Unione Europea. L'Italia, insomma, si trova isolata di fronte a un'emergenza che, anche oggi, ha visto centinaia di disperati alla deriva nel Mediterraneo e quasi 2000 persone salvate dalla nostra Guardia Costiera nel Canale di Sicilia. (Im)morale della favola: l'Europa che tanto ci vendono e alla quale i politici si ostinano a farci appartenere non serve a un cazzo (uso un francesismo, perché il francese è la lingua ufficiale a Bruxelles).


Plovelbio cinese dice: "Chi non conosce il passato e il plesente della ploplia Nazione è solo un animale in veste di uomo". Con il muro che Vienna ha deciso di alzare al Brennero, l'Austria dimostra di non ricordare nulla dei disastri combinati in passato e di conoscere nemmeno il suo presente all'interno di un sodalizio di cui trae non pochi vantaggi economici, utili anche per il suo futuro.
Dimostra di agire con l'istinto animale di chi vuole difendere un branco da tenere isolato dalla comunità, anziché con la ragione umana, propria di chi difende i diritti della collettività, soprattutto quelli dei più deboli. E in questo caso mi riferisco all'Italia, geograficamente più esposta all'immigrazione. Su quel muro, nella lingua ufficiale di Bruxelles, c'è scritto: "Cazzi vostri". A meno che non si tratti dei sempre benvenuti turisti, Pederzini docet.


Plovelbio cinese dice: "Fello battuto diventa acciaio". Ecco, questo plovelbio è quello che mi fa più paùla.

venerdì 8 aprile 2016

Francesco non concede alibi ma abbracci indispensabili


Ricordo, ai tempi del liceo, una lezione di filosofia in cui il grande, enorme professore che avevamo, Joaquin Belmonte, ci poneva questa domanda: "Se Dio è infinitamente buono, può essere, allo stesso tempo, infinitamente giusto?" Silenzio in aula.
Giustizia terrena e perdono non possono convivere. Chi sbaglia, paga. E' la legge dell'uomo. La legge di Dio ha altre sfumature: chi sbaglia può essere perdonato. Chi persevera nell'errore, però...prima o poi si dia una regolata.
Finora la Chiesa ha applicato spesso la legge dell'uomo, piuttosto che quella di Dio. Passare dal confessionale non sempre era una garanzia. Non per chi, anche ai vertici massimi del Clero, ha rimosso dalla mente la frase che Gesù disse alla prostituta: "Io non ti condanno, vai e non peccare più". Dov'è, allora, l'infinita bontà? Ma, a pensarci bene, l'infinita bontà può convivere con un'infinita giustizia?


Ci sta sempre più avvicinando a questi concetti Papa Bergoglio. Che, proprio oggi, tende la mano, dall'alto di quel che rappresenta, a quelli che, fino a questo momento, erano stati gli emarginati della Chiesa. Ma anche quelli della società non credente che, molto volentieri, sale su improvvisati pulpiti per additare peccatori e untori. I divorziati, gli uomini e le donne costretti a rifarsi una vita con una firma in Comune in alternativa ad una benedizione negata, anche se cristianamente voluta. Le persone che hanno sofferto quello che nessuno può immaginare quando hanno fatto una scelta obbligatamente sbagliata come un aborto pur sapendo a che cosa andavano incontro, cristianamente o moralmente.


Ho visto pochi sacerdoti asciugare le lacrime di chi infrangeva il sacro vincolo del matrimonio. Sono ancora meno quelli che ho visto consolare una donna sul lettino che la portava in sala operatoria per interrompere una gravidanza. Ho visto, però, gente che divorziava o abortiva distrutta dall'errore che avevano commesso e che chiedeva alla vita una seconda opportunità. E ho visto nei loro volti la paura di trovarsi in quel bivio che separa l'infinita bontà, quella che include la comprensione e, quindi, il perdono, e l'infinita giustizia, quella che insiste sulla punizione, l'esclusione, l'inferno.
Il mio prof (con cui ho condiviso poco fa qualche piacevole bicchiere di vino e un'altrettanto piacevole chiacchierata) ci diceva: "Ogni tentativo di circoscrivere Dio nella vostra mente vuol dire rinunciare alla sua natura illimitata". In altre parole: cercare di capirlo completamente è impossibile.
Così come cercare di sostituirci a Lui, riscrivendo le regole, è presuntuoso.
Ecco perché Francesco oggi fa il suo ennesimo passo avanti per venire incontro alla società senza rinunciare ai valori fondamentali del Cristianesimo. Hai sbagliato? "Non ti condanno, vai e non peccare più". Che altro può dirci un pastore?
Il valore del suo messaggio, però, si trova nella prima parte di quella frase: "Non ti condanno". E mi viene da pensare che questo messaggio non sia rivolto solo ai fedeli ma a chi "amministra" (che brutta parola) il perdono.
Il curato della mia parrocchia nega la comunione ai divorziati. Non so con quale diritto. Passa a quello successivo, non sapendo cosa c'è nel cuore di quello che rifiuta e di quello a cui riceve. Spero che da oggi, leggendo l'esortazione del Papa Amoris Laetitia ci rifletta un attimo. E' un ministro di Dio. E, di solito, i ministri devono seguire la linea dettata da chi sta sopra di loro, anziché agire di testa propria. Nella vita terrena ne conosciamo le conseguenze.


Francesco invita all'abbraccio, non all'esclusione. Alla coerenza, sì, ma anche al perdono e alla comprensione. Peccare non ha alibi, redimersi è un'opportunità. Non lo dice Bergoglio: lo dice il Vangelo.
Sogno il giorno in cui, oltre al popolo laico, crederà in questo messaggio anche l'intero clero, non solo i singoli sacerdoti, vescovi o cardinali che si sporcano le mani aiutando i più deboli, anche i deboli di spirito, nel nome di Dio. Nonostante, proprio per questo, trovino tra le gambe i bastoni di buona parte della Santa Madre Chiesa.



















giovedì 7 aprile 2016

Riina jr. da Vespa e l'ipocrisia che porta alla censura


Senza peli sulla lingua: se in questo momento, come giornalista, mi proponessero di andare in carcere a intervistare Totò Riina in persona (non i suoi parenti, ma proprio il boss dei boss), mi pagherei la trasferta. Ritengo parte del mio mestiere anche l'opportunità di guardare negli occhi quell'assassino e di raccontare la sua storia, dovesse provocarmi i crampi allo stomaco. Soprattutto se la sua di storia fa parte di quella di tutti. Qualsiasi giornalista dica il contrario mente sapendo di mentire. Trovo, quindi, squallido ogni commento dei concorrenti di Bruno Vespa riguardante l'intervista a Giuseppe Salvatore Riina andata in onda su Porta a Porta. Rispetto, anche se non condivido, le critiche della gente comune, per quanto spinta, ogni tanto, da sentimenti nazional-popolari che vengono dimenticati il giorno dopo. Non posso, però, accettare quelli dei colleghi, la cui rabbia invidiosa porta a demolire l'avversario anziché a riconoscere la sua bravura. Oppure, scelta più nobile a volte, a stare zitti. Perché, che ci piaccia o no il suo stile, Vespa è bravo ad arrivare ovunque. Non è da tutti ricevere la telefonata in diretta di un Papa o intervistare un mafioso, con tutte le conseguenze. Il diavolo e l'acqua santa: tutti sono da lui. E non altrove. Con quali mezzi? Non mi interessa. Per quanto dispiaccia alla concorrenza.

Si può non condividere gli argomenti di Salvo Riina. Di fatto, io non li condivido. Ma non ne sarei stato consapevole se non li avessi ascoltati. E rendere un popolo ignorante oscurando le opinioni più scomode ci accomunerebbe alla Cina, che censura ogni riferimento ai Panama Papers per non mettere a repentaglio l'Unico Pensiero.
I Panama Papers: lì sì che c'è un divertimento morboso a guardare i nomi dei peccatori che fregano i soldi al fisco, mentre comuni mortali si impiccano quando ricevono le cartelle esattoriali dell'Agenzia delle Entrate.
Eppure, in queste ultime ore, non ho sentito un solo invito a non viaggiare più con Alitalia perché il suo presidente, Luca Cordero di Montezemolo, forse, è un evasore. A non guardare più un film di Carlo Verdone perché, forse, è un evasore. A non sostenere né intervistare più Valentino Rossi perché, forse (ancora una volta) è un evasore. A cacciare via dai palinsesti di Mediaset Barbara D'Urso, perché, forse, frega sulle tasse anche lei. Eccetera eccetera. Loro, certo, non sono mafiosi, Ma, a quanto pare, forse, si dice, si vocifera, fregano lo Stato, e quindi anche noi, in maniera diversa. Continueremo a vederli e ad applaudirli sul piccolo o sul grande schermo, a sentire le loro interviste, spesso banali, (e non solo su Porta a Porta) dimenticando il danno che, a quanto pare, forse, si dice, si vocifera, ci stanno creando.
In una società "plurale", come quella che tentano di venderci in questo Paese, conoscere il punto di vista dell'avversario è doveroso, per quanto ripugnante nei contenuti. Non conoscere il pensiero dei dittatori, dei macellai della storia, non entrare nella mente di Hitler, di Mussolini, di Franco, di Stalin, è ignoranza, non perbenismo. I giornalisti che nelle ultime ore gridano allo scandalo non intervisterebbero uno dei loro discendenti? Qualcuno si è scandalizzato a vedere la nipote del Duce sedere in Parlamento?
Trovo, francamente, più squallido aprire dibattiti su quanto si senta sfigata la Ventura all'Isola dei Famosi, seguire per filo e per sangue ogni caso mediatico di cronaca nera, far diventare Raffaele Sollecito addirittura opinionista in materia a Quarto Grado, vedere che la fascia protetta in tv a tutela dei minori è diventata per alcuni canali "fascia pro-tetta", perché ad ogni ora si vede di ogni, dalla mattina alla sera. Tutta questa è, ormai, normalità. Purtroppo. E completa indifferenza: nessuno chiama i vertici delle televisioni per dire che in mattinata non si dovrebbe fornicare davanti alle telecamere.

Invece siamo qui a lamentarci se un giornalista fa il suo mestiere. Quello del giornalista, non del venditore di libri, come succede in altre trasmissioni (vero Fazio?). Enrico Mentana, in un tentativo moralizzatore sul suo telegiornale, critica la scelta del collega ricordando che la Rai viene mantenuta con i soldi dei cittadini (trovi un argomento meno scontato, per piacere), ma dimenticando i tempi in cui Silvio Berlusconi gli dettava le domande da fargli in occasione della campagna elettorale del 1998 (in questo video a 0.32"). Provi a fare la metà di quello che ha fatto Vespa nella sua carriera, se ne è capace.

Proporre un pensiero non significa condividerlo. Oscurarlo, però, significa toglierci l'occasione di conoscerlo per poi, semmai, criticarlo. Proporre, e non oscurare, è il compito più alto del servizio pubblico in un Paese libero. Come scrisse il grande Gustave Flaubert, considerato immorale per avere pubblicato Madame Bovary, "la censura, qualunque essa sia, mi sembra una mostruosità, una cosa peggiore dell'omicidio: l'attentato al pensiero è un crimine di lesa anima".

Ps: a me Vespa non piace, così, a pelle. Ma lo ritengo il migliore sulla piazza. Perché in questo mestiere, oltre alla bravura, conta anche il potere.


















martedì 5 aprile 2016

L'affaire Panama: dignitose povertà e squallide ricchezze

Diceva lo scrittore statunitense Raymond Chandler: "La maggior parte della gente consuma metà delle proprie energie cercando di proteggere una dignità che non ha mai posseduto". Probabilmente, quella stessa gente, ne spende l'altra metà a rovinare la dignità che poi cerca di proteggere, pur non sapendo che non la possiede.
E' ancora più esplicito il poeta americano Charles Bukowski quando afferma: "Ovunque tutti sbraitano dignità, rappresentanza, ma le loro menti e le loro anime sono fango e merda. E come si fa a dare dignità alla merda?" Bukowski è nato nel 1920 e morto 22 anni fa. Ma le sue parole non potevano essere più attuali, vedendo il marcio che ci circonda. Vedendo come la dignità umana, da certi livelli in su, puzzi del letame prodotto da chi la dignità non la possiede ma la usa come deodorante per nascondere le proprie schifezze.
Sarebbe facile dire che chi ci governa e, nel frattempo, si costruisce "una casetta piccolina in Panamà" ha la dignità grande quanto la casetta. Sarebbe troppo populista additare capi di Stato, imprenditori, professionisti, calciatori, registi, affini, collaterali e uomini di fatica (grazie Totò) facendo la solita riflessione: "Sono tutti uguali". Più complicato sarebbe chiedersi: "Io, al loro posto, con milioni e milioni di euro a disposizione, avrei fatto lo stesso?"
Più difficile ancora, roba da doppio carpiato con triplo avvitamento e salti mortali da paura, sarebbe riflettere su chi consente che questa sottospecie umana diventi quello che è: potente, senza scrupoli, con la dignità puzzolente. In una parola, dei mascalzoni. La risposta è tanto scontata quanto scomoda (non necessariamente in quest'ordine). E allora, rilancio: dov'è la nostra di dignità? Quale odore ha? Sappiamo di averla o, come suggeriva Chandler, diamo per stabilito che ci appartenga come valore indiscutibile?
Un solo Paese, uno solo, è sceso in piazza per chiedere le dimissioni (ottenute nel pomeriggio) di chi lo stava prendendo per i fondelli: l'Islanda. Il premier David Gunnlaugsson si è arresto alla volontà popolare e ha fatto quello che, apparentemente, sembra il primo passo sulla via del recupero della propria dignità. Non pretendo che succeda lo stesso in Cina, dove l'Apparato di Stato ha già provveduto a censurare i media e ad oscurare tutti i siti Internet in cui si cerchi la parola "Panama". Non immagino, nemmeno, che segua le orme di Reykjavik la Russia, dove si è già messa in moto la macchina contro il "complotto della Cia". Men che meno parlo dei Paesi arabi: pochi giorni fa scrivevo di come il Marocco tappi la bocca senza tanti complimenti a chiunque mostri delle divergenze sul modo in cui vengono trattati "i diversi". Figuriamoci se può accettare una rivolta contro un monarca che riduce una parte della sua popolazione in povertà ma poi si crea paradisi fiscali altrove. Lo stesso vale per l'Arabia Saudita: sarebbe mai possibile che quello che ha combinato il suo Re possa scatenare la Rabbia Saudita? In Siria, poi... Chi è rimasto vivo cerca di scappare dalla guerra, figurarsi quanto può fregare a quella povera gente di quel che combina Assad con i suoi soldi.
Penso, invece, alle popolazioni che si ritengono in grado di vendere democrazia altrove ma che restano indifferenti davanti alle cadute di stile di chi, diventando ricco grazie a loro, si accomoda troppo facilmente sulla vellutata poltrona del potere. Di qualsiasi potere si parli: politico o sociale. Il presidente argentino Mauricio Macri non vale più di Leo Messi. La famiglia Le Pen ha influenze diverse ma non maggiori di Michel Platini. La zia del Re di Spagna non è più povera di Pedro Almodovar. Gli italiani, poi, non fanno più notizia in casi come questo. Ma, come tutti gli altri dell'interminabile lista della vergogna, hanno una cosa in comune: l'abilità di avere accumulato fior di quattrini grazie al nostro consenso: voti, magliette acquistate, sponsor accontentati, code ai botteghini. Quell'indifferenza mista all'ammirazione per chi ce l'ha fatta. Ora sappiamo (anche) come. Io e te possiamo avere talento. Loro, oltre a quello (in alcuni casi indiscusso), sono furbi. Grazie a chi glielo permette. Cioè, noi.
"Tutte le persone osannate perdono dignità se viste da vicino", diceva uno che non ci andava molto per il sottile, Napoleone Bonaparte. La sua, di dignità, l'ha giudicata la storia. Oggi centinaia di persone hanno visto un altro aspirante imperatore, Silvio Berlusconi, arrivare al funerale di Cesare Maldini con 20 minuti di ritardo e fare passerella sul sagrato della basilica milanese di Sant'Ambrogio, tra qualche applauso. Un presidente che si riempie la bocca di sante parole, tra cui, appunto, la dignità, sarebbe arrivato per primo a ricevere chi ha contribuito a riempire di gloria la sua società, per abbracciare prima di chiunque altro quello che qualche ora prima aveva definito "un pezzo di storia del Milan". Anche Berlusconi è stato osannato da qualcuno, al suo arrivo in chiesa. Da qualcuno che, forse, l'ha visto da lontano.
Per Ovidio, "la dignità e l'amore non si mischiano bene, e nemmeno vanno a lungo d'accordo". Lo ha capito l'ormai ex ministro per lo Sviluppo Economico Federica Guidi, che cerca di recuperare la dignità perduta a discapito dell'amore. Al fidanzato che l'ha messa nei guai e le ha fatto perdere la faccia e la carica, secondo le intercettazioni, avrebbe detto: "Mi stai utilizzando". In qualsiasi rapporto di coppia può arrivare un momento in cui si casca dalle nuvole. In questo caso, però, più si è in alto (cioè più si era ministro) più fa male la caduta. Anche se il tuo ex capo di Governo ti mette una rete improvvisata sotto per evitare danni: la rete l'ha già tessuta per salvare se stesso.
Papa Francesco vuole andare a Lesbo a incontrare i migranti. A ridare loro la dignità rubata da chi oggi è stato preso con le mani nella marmellata. E a ricordare al mondo, come diceva il grande Pino Caruso, "Esistono dignitose povertà, non dignitose ricchezze". Sta a noi decidere, una volta per tutte, da quale parte stare. A patto che, poi, non ci lamentiamo delle nostre scelte.


















lunedì 4 aprile 2016

Formigoni, "Così Celeste" (he's my baaaby")


La pazienza non è una delle sue celesti virtù. Come i bambini, quando subisce un torto reagisce puntualmente come una furia. Lui dice "come un maschio", ma vabbè. Questione di punti di vista. Roberto Formigoni ha fornito una nuova prova della sua celeste ira davanti alle telecamere di Italia 1. Vittima di turno, l'inviato delle Iene Filippo Roma. L'ex governatore della Lombardia, oggi senatore della Repubblica, si è scagliato contro di lui quando gli è stato chiesto perché non ha rispettato la sentenza del giudice che lo aveva condannato al pagamento di circa 50mila euro per diffamazione contro i Radicali ai tempi della famosa vicenda delle firme false a sostegno del suo celeste listino di area Pdl per le regionali del 2010 (per la cronaca, la sentenza di primo grado ha condannato l'allora coordinatore lombardo del Pdl nonché presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà e di quattro ex consiglieri provinciali che autenticarono le firme). Il politico lecchese voleva strappare di mano il microfono alla Iena, in uno di quegli inutili tentativi di censura in cui alcuni (pre)potenti credono ancora. Il messaggio era limpido, trasparente, celeste: sono un parlamentare, a differenza di te posso fare quello che voglio e rump minga i ball (ogni lettore traduca la "rottura di balle" nella propria lingua: il senso della frase è politicamente universale).


Formigoni ci ha abituati a queste reazioni che lui definisce tanto virili. Nella memoria di tutti c'è ancora il video registrato da un passeggero in un gate dell'aeroporto romano di Fiumicino quando il già parlamentare, passato nelle fila del Nuovo Centrodestra, infuriato perché il suo aereo era in ritardo, riempì di epiteti poco celesti il suo interlocutore al telefono e finì per scagliare a terra l'apparecchio. Cosa, peraltro, che avrebbero desiderato fare al suo indirizzo le centinaia di migliaia di pendolari delle Ferrovie Nord quando lui era presidente della Regione Lombardia, azionista di maggioranza della società ferroviaria, e quindi massimo responsabile dei disservizi subìti dai passeggeri giorno dopo giorno. L'avrebbero fatto volentieri, questi pendolari, se avessero avuto il numero diretto del suo celeste ufficio, allora con bella vista ai piani alti del Pirellone.


Si sarebbe, magari, trattenuto dall'inveire, ancora in aeroporto, questa volta il parigino Charles De Gaulle, contro una hostess di Air France, alla quale ha dedicato la famosa frase "lei non sa chi sono io" oltre ad altre poco celesti sconcezze del tipo "io ci vado a bordo, cazzo". Vi pare adeguato che un rappresentante delle istituzioni dica ad una signora o signorina "io ci vado a bordo"? Anche in questa occasione, la poco edificante scenata è stata documentata da un video, pubblicato da Il Fatto Quotidiano.


Altre celesti sfuriate restano "oscurate". Come quella che sarebbe avvenuta in un corridoio della sede Rai di Milano. Ai tempi in cui lavoravo per la tv di Stato, una sera, tornando dalla mensa, vidi la porta di un ufficio sfondata da un pugno. Chiesi cos'era successo e i miei colleghi più anziani mi dissero: "Formigoni non ha gradito un'intervista". Ma forse è solo una leggenda metropolitana, chissà...


C'è da capirlo, comunque. Chiunque si sentisse perseguitato come lui perderebbe le staffe anche per la puntura di una zanzara. Chiunque fosse indagato dalla magistratura per associazione a delinquere, corruzione e finanziamento illecito ai partiti (i processi sono ancora in corso) vorrebbe essere lasciato in pace. Almeno finché, seppur protetto dal suo ombrello senatoriale, non dimostrerà la sua innocenza ...così celeste.











venerdì 1 aprile 2016

Gli scarpini di Messi: l'Egitto l'asta l'ha vista


Calcisticamente parlando, la parola "Barcelona" mi fa venire l'herpes. Sono tifoso del Real Madrid per una questione di orgoglio nazionale da quando sono arrivato in Italia, 28 anni fa. A quei tempi, la squadra dei Butragueno, Sanchis, Buyo, Michel prendeva sonore scoppole dal Milan di Baresi, Massaro, Van Basten, Gullit e ho subìto una naturale quanto irreversibile metamorfosi verso il sostegno del colore merengue. Inevitabile, a questo punto, la rivalità verso i blaugrana, poi tramutata in qualcosa di più a causa dell'utilizzo che i dirigenti catalani fanno del loro club per sostenere la causa di un'indipendenza sulla quale vogliono solo loro dettare le regole. Ma questa è un'altra storia.
Alla vigilia del Clasico, la partita di campionato tra Barça e Real in gioco domani, più inutile che mai per il titolo di Liga vista la classifica, mi ritrovo, però, a prendere le parti di uno dei simboli della Barcellona calcistica, forse l'uomo a cui i culés devono i successi dell'ultima decade: Leo Messi.
Già a scrivere questo nome mi prudono le mani. Ma solo per rivalità sportiva, giuro.


Il fuoriclasse argentino non brilla, certo, per simpatia. Spesso rifiuta, perfino, la mano al bambino che lo accompagna in campo all'uscita dagli spogliatoi prima di una gara. Ma, ogni tanto, si impegna in cause nobili. Come quella che lo ha portato in Egitto, dove si è detto disponibile a regalare un paio dei suoi scarpini di calcio per un'asta di beneficenza organizzata da un'emittente radiofonica locale. Roba che dalle nostre parti aveva già messo in coda decine di migliaia di pretendenti. Purtroppo (cose mai viste sul campo) il suo gesto si è rivelato un clamoroso autogol. Nessuno, infatti, l'aveva avvertito del fatto che le scarpe (le gazma), sono considerate in Egitto un segno di disprezzo, un'offesa alla cultura araba. Bella figura. Si è beccato quintalate di insulti. Si sono addirittura mobilitati alcuni parlamentari, secondo cui "mai l'Egitto era stato umiliato così in settemila anni di storia". La Federcalcio egiziana è sul piede (nudo) di guerra. Certi conduttori televisivi hanno mostrato la propria scarpa durante il telegiornale giurando che gliela scaglieranno al povero calciatore (Spisini che mangiava il pollo arrosto al Tg5 ai tempi dell'aviaria era nulla in confronto). Nemmeno al Santiago Bernabéu avrebbero fischiato così tanto la Pulce.


Certo che anche la radio egiziana avrebbe potuto pensarci prima e chiedergli una maglia, i calzoncini, che ne so, piuttosto le mutande. I conduttori dell'emittente conoscono meglio di Messi il rischio che si correva. La prova ce l'hanno data le cronache degli ultimi anni. Ricordate il gesto del giornalista iracheno Muntasir El Saidi che, durante una conferenza stampa, lanciò due scarpe all'allora presidente americano George W. Bush (mancandolo, purtroppo)? Ecco, quello era il segno del disprezzo più totale. Come lo era il lancio massivo di scarpe contro gli elicotteri che sorvolavano piazza Tahrir, al Cairo, durante la rivolta contro l'ex presidente egiziano Hosni Mubarak.


In Egitto, l'avversione verso le calzature risale, in realtà, ai tempi dei Tutankhamon: tra le incisioni trovate nella sua tomba, ci sono quelle che raffigurano dei sandali su cui sono stati disegnati i nemici del "faraone bambino" (i suoi di sandali, tra l'altro, erano ortopedici. Forse arrivava da lì il suo odio verso tutto ciò che avvolgeva i suoi Magnifici piedi?).
Che Leo Messi (enorme calciatore, per carità, non per altezza ma per capacità) stia sul piloro a uno come me, tifoso del Real, ci sta. Odio i suoi gol al Bernabéu. Ammiro, da appassionato di calcio, le sue qualità. Ma che un gesto di beneficenza verso un popolo che spesso si lamenta e che tende sempre la mano all'Occidente in segno di elemosina venga preso alla lettera come un'offesa culturale credo sia uno smisurato segno di ignoranza.
E' anche vero che se nessuno informa il proprio popolo delle magagne che i loro dirigenti combinano, è facile restare ai tempi di Tutankhamon. Probabilmente se gli egiziani sapessero le figure di palta che combinano i loro servizi segreti nei confronti dei giovani stranieri, le violazioni dei diritti umani e via torturando, la vicenda di un calciatore che, per beneficenza, commette una gaffe verrebbe vista come un'azione da ammonizione verbale, anziché come un fallo da cartellino rosso.
La vendita all'incanto non si farà. L'Egitto l'asta l'ha (già) vista.