Nove su dieci. Troppi. Quasi tre quarti di loro,
giovani. Nove italiani su dieci tra quelli che sono stati costretti a lasciare
l’Italia per cercare un posto di lavoro all’estero hanno una laurea. Un titolo
che in Italia conta quanto un pezzo di carta qualunque ma che in altri Paesi è
sinonimo di talento da sfruttare. Perché buttare al vento anni di sacrifici? La
tentazione di emigrare è troppo forte. A casa loro non c’è futuro. Altrove sì. A
parità di lavoro guadagnano di più, in alcuni Stati addirittura il doppio. Ecco
perché la maggior parte di loro non torna. E chi glielo fa fare?
Da un punto di vista pratico, non hanno alcun torto: se
l’Italia non dà loro la possibilità di farsi una vita, di tagliare
definitivamente il cordone ombelicale dai genitori per acquistare una loro
indipendenza, di vedere riconosciute dignitosamente le loro capacità, perché non
tentare (e molto spesso trovare) fortuna all’estero? Perché rifiutare una buona
offerta oltreconfine?
A domanda, risposta. E a rispondere ci ha pensato una
laureata in Giurisprudenza d’impresa, pugliese di Monopoli, 28 anni. Monica
Montenegro ha gli occhi verdi, dai quali traspare il sogno di lavorare nel
mondo della comunicazione. Ha un sorriso deciso tanto quanto il suo carattere. Ma
si scioglie come un ghiacciolo all’arancia quando la sua semplicità trova di fronte
un’anima leggera come la sua. Davanti ad un complimento sincero si emoziona e
gli occhi verdi lasciano cadere qualche lacrimuccia. Ha nel volto e nell’anima
l’aria fresca ma anche pungente di quella parte di Adriatico che bagna la
Puglia, il profondo Sud-Est dell’Italia, lasciato alle spalle per studiare alla
Bocconi di Milano. La Bocconi, il sogno di migliaia di studenti. Dicono che una
laurea in quell’università spalanca le porte un domani. Nel suo caso, delle due
una: o il domani deve ancora arrivare o stanno cercando ancora le chiavi per
aprire quelle porte.
E non perché, tornata in Puglia, si sia seduta in cima
ad un trullo in attesa che arrivi l’occasione della sua vita. Monica
l’occasione l’ha cercata eccome. L’ha raccontato qualche mese fa in una lettera
pubblicata dalla giornalista Concita De Gregorio sul suo blog e su Repubblica.it: ha mandato quasi 8.000
curriculum. Ottomila. Sapete quanti sono ottomila curriculum? Se fossero fatti
di una sola pagina, sarebbero 16 risme da 500 fogli l’una. Ha ricevuto una sola
risposta. Dalla Polonia. Gli altri devono aver pensato che Monica aveva già
consumato troppa carta ed era il caso di risparmiare evitando di rispondere.
C’è anche la posta elettronica, certo. Ma avranno avuto delle rogne con il
server. Uno di quei problemi che impediscono ad una persona educata di
rispondere ad un messaggio altrettanto educato. Così, tanto per correttezza.
In Polonia la volevano come assistente legale di
un’azienda (pardon, come legal assistant, ché oggi se non metti
la tua carica in inglese non sei nessuno). Ecco il treno che si avvicina e per
il quale, volendo, si stacca un biglietto di sola andata. C’è un posto libero
per Monica. Alla stazione, lei punta gli occhi verdi sul treno, lo vede sostare
a Monopoli. Ma questa ragazza dai capelli ribelli come la sua anima non ha con
sé le valigie. E nemmeno la voglia di salire su quel treno. Lo lascia che
parta. Lo vede mentre si allontana. Si volta e guarda la sua terra. Ha gli
occhi ludici. Non per il rimpianto di un’occasione persa ma per l’emozione che
prova mentre pensa: “Questo è il mio posto”.
Il suo posto è l’Italia. Qui ci vuole restare Monica. Qui
avrebbero voluto rimanere le decine di migliaia di giovani costretti ad
emigrare per trovare un avvenire. Monica pensa anche a loro. E decide che “il
mio posto” deve diventare “il nostro posto”. Il posto di tutti quelli che hanno
l’ambizione di vivere e di morire nel Paese in cui sono nati. Di mettere a disposizione
del proprio Paese e delle generazioni che verranno il loro talento e la loro
creatività.
“Il nostro posto” cambia le virgolette per un
cancelletto e si trasforma in un hashtag, #ilnostroposto,
appunto. Poi cresce e diventa un progetto sviluppato sui social (e dove,
altrimenti?) che raccoglie delle storie. Storie di ragazzi costretti a
lasciarsi l’Italia alle spalle per toccare con mano quella possibilità di
futuro negata a casa loro. Storie di giovani emigrati che non vogliono soltanto
raccontare quanto c’è di bello altrove, ma quanta voglia avrebbero di mettersi
a disposizione del loro Paese. Patrizia, ad esempio, ha lasciato Pisa – “e gli
amici, i luoghi, la famiglia, il cibo…” – per gli Stati Uniti. “Dopo 8 mesi –
constata questa giovane toscana – posso dire che l’America non è un sogno ma
c’è ricerca e, a livello accademico e professionale, può restituirmi quello che
l’Italia mi stava togliendo: la mia passione”. Amara soddisfazione? Cruda
realtà.
Storie di ragazzi caparbi, che, nonostante le
difficoltà, vogliono farcela a casa loro. Dalila sogna di fare la scrittrice.
“Tutto quello che sono riuscita a fare nel mio Paese – racconta – è stato
collezionare ogni improbabile colloquio, ogni assurda esperienza di non-lavoro
e di non-contratto e scrivere un libro”. Lo ha fatto nel 2014 grazie ad una
piccola casa editrice del nostro Sud. Il titolo del suo libro, tutto un
programma: Alice nel Paese dei call
center.
Viviana ce l’ha con Flavio Briatore, colpevole – a suo
dire – di aver tacciato i giovani che restano in Italia come dei falliti e dei
fannulloni. Senza peli sulla lingua, Viviana descrive a Briatore la sua idea di
felicità: “E’ quella che ritroviamo nel
nostro sudore alla sera, che puzza di fatica, di onestà e di semplicità. Che
puzza di calzone di cipolle a Pasqua e di lenticchie a Capodanno. Che puzza di
mare al mattino e di campagna alla sera. Avere il coraggio di restare mentre
quelli come te dicono di fuggire via è la nostra vera vittoria”. Si potrebbe
aggiungere altro?
Come no. Si possono aggiungere
le storie – meglio sarebbe dire le frustrazioni – di Antonella, di Ilenia, di
Francesco, di Maria Donata e di tanti altri ragazzi con l’amaro in bocca per
non ricevere dall’Italia la possibilità di dimostrare quanto valgono. Ragazzi,
però, che continuano a lottare perché arrivi il giorno in cui lo possano fare,
convinti che questo è #ilnostroposto.
Monica, la ragazza pugliese degli occhi verdi, dai capelli ribelli come il suo carattere, dal sorriso magnetico e contagioso, la ragazza di Monopoli che sogna
di lavorare nel mondo della comunicazione e che ha messo in piedi questo
progetto, si chiede: “Dove finirà la nostra creatività? Dove finirà il talento
italiano?” La parola “finirà” non mi piace. Preferisco domandarmi “quando torneranno
in Italia”, o, alla peggio, “dove si svilupperanno” quella creatività e quel
talento. Perché le capacità dei nostri ragazzi non “finiscono” mai. Sta
all’Italia (politici ed imprenditori) non farsele scappare. Sta ai ragazzi
continuare a combattere, a studiare, a prepararsi per dimostrare che questo
Paese è il loro posto. Anzi: #ilnostroposto.






