Lo sguardo mi si sposta in automatico verso la saletta interna, dove alcune decine di signore di una certa età occupano ansiosamente i tavolini e cercano di sistemare il mondo e di riempire le ore con le loro chiacchiere che nemmeno ascolto, perché non riesco a capirle, nel fracasso. Mi fanno tenerezza.
Torno davanti al Comune, sono quasi le 10. Vedo passare una ragazza africana. I ricci corvini puntati all'indietro sui lati. Camminata decisa. Passa davanti al bar di Battisti. L'uomo della maglietta azzurra augura buona Pasqua anche a lei. Penso sia la donna con cui ho preso appuntamento. Ma nemmeno si accorge di me. "Non era lei", mi dico.
Era lei, invece. Perché pochi minuti dopo mi chiama da un altro ingresso del Comune. E la vedo che sbuca dietro un angolo. Mi riceve con un sorriso. Ci sediamo al tavolino di un altro bar, lontano dalle chiacchiere.
Sokhna è senegalese. E' presidente dell'Acsi, l'Associazione dei Connazionali Senegalesi in Italia (qui la pagina Facebook dell'associazione). E' stata una recente iniziativa di questo sodalizio a farci entrare in contatto sul web. Sokhna ha 36 anni (scopriamo che festeggiamo il compleanno lo stesso giorno e rompiamo il ghiaccio ridendo su questo particolare). Un marito, Bassirou, più grande di lei di 10 anni. Quattro figli: due gemelli di 12 anni (maschio e femmina), una bimba di sei anni, il più piccolo di appena tre. "Sono stata brava", ride ancora mentre beve il suo latte macchiato, "ho fatto due coppiette. Ma a mio marito ho detto: basta, chiuso, a posto così".
Sokhna l'aveva raggiunto qualche anno dopo, nel 2003, dopo avere trascorso sette anni a Parigi da parenti, lavorando come parrucchiera. Prima Bosisio Parini, poi Molteno, dove non si è risparmiata a fare l'operaia, la cameriera in un ristorante. Ha assistito anziani a domicilio dopo aver frequentato un corso. Da tre mesi è ferma anche lei. Beve un altro sorso di latte macchiato. Mi guarda dritto negli occhi e sorride ancora. "Ho fatto di tutto", mi dice con una punta di positivo orgoglio. "Ma come si campa così, con quattro figli a carico?", oso chiedere. "Con risparmi e sacrifici. I primi sono agli sgoccioli, gli altri non finiscono mai". Ma sorride ancora.
I suoi bambini sono nati in Italia. Ma non sono italiani. A differenza di tanti altri Paesi (anche europei), in Italia non viene ancora applicato il principio dello ius soli, cioè quello che riconosce la cittadinanza a chiunque sia nato sul territorio indipendentemente della nazionalità dei genitori. I quattro figli di Bassirou e Sokhna saranno italiani solo al compimento del 18esimo anno di età. O meglio, avranno la possibilità di avere un passaporto italiano. Avere un'identità è più complicato: "I gemelli, che sono più grandi," mi confida Sokhna "non mi nascondono la loro confusione. Dicono: in Senegal siamo italiani, in Italia siamo senegalesi. Mamma, ma noi chi siamo?"
I gemelli hanno conosciuto le loro radici. Sokhna ha deciso di mandarli per un paio di anni a Dakar soprattutto perché la bambina riprendesse fiducia in se stessa. "A 10 anni era disposta a farsi schiacciare dalle loro compagne di scuola pur di farsi accettare, perché si sentiva diversa, perché qualcuna la faceva sentire diversa. Non era giusto. In Senegal ha imparato a farsi rispettare. E' andata con suo fratello gemello, non era giusto separarli. E' appena rientrata, diversa. Come volevo che fosse: se tu ti rispetti, gli altri faranno lo stesso con te".
La conversazione va avanti liscia, ci scambiamo le proprie opinioni, sembra - le dico a un certo punto - che ci conosciamo da una vita. Mi rendo conto che sta spalancando la sua anima davanti ad uno sconosciuto. "Ma io mi fido di te", mi dice, ancora sorridendo, "perché ho capito che hai l'anima buona". Mi sciolgo come lo zucchero nel caffè. Ringrazio il Cielo del mestiere che faccio. E, vista l'ora, passiamo all'aperitivo.
Affonda il coltello nella piaga. "Se c'è una cosa che mi dà fastidio è quando mi sento dire che sono di colore. E' un modo per farmi sentire diversa. Io sono nera, sono negra. E non me ne vergogno. Preferiscono quando mi dicono: ecco la ragazza nera. Non voglio farmi sentire piccola", continua senza mai perdere il sorriso, "perché non lo sono. Non voglio attorno gente che si lamenta sempre perché poi mi porto a casa la sua sofferenza e la sua frustrazione".
E' in quell'istante che le chiedo se quel sorriso magnetico si spegne qualche volta. "Mai davanti agli altri, nemmeno davanti a mio marito. Quelle rare giornate in cui sono triste mi chiudo in bagno e mi faccio una doccia. Le lacrime si fondono con l'acqua. E, se esco con gli occhi rossi...beh, dico che mi è entrato del sapone negli occhi". Scoppia a ridere. Di nuovo. E si mangia una pizzetta.
Da due anni è presidente dell'Acsi. "La prima donna presidente", mi dice sollevando le sopracciglia. "E ho coinvolto tante altre donne". Cercano di aiutare i senegalesi in difficoltà, sia in Italia che nel loro Paese. Si autofinanziano, con una piccola quota annuale, in assenza di altri aiuti. A volte, nei casi più drammatici, contribuiscono a pagare il costoso rimpatrio di una salma verso il Senegal. E lavorano per diffondere la cultura dell'integrazione. Riflettiamo entrambi: "Chi si sente più escluso in Italia? Lo straniero che ha la pelle diversa o l'italiano che non ha l'auto, il cellulare, il fisico o i vestiti firmati dei compagni di scuola?" La diversità, in effetti, è una questione di punti di vista.
Si è fatta una certa ora. Usciamo dal bar, ci salutiamo con un mezzo abbraccio e un bacio sulla guancia. "Nessun complimento, sono africana", mi dice sorridendo. Scopro, e le ricordo, in quel momento, quanto eravamo e siamo vicini geograficamente e culturalmente. Ho la macchina parcheggiata proprio davanti. Lei preferisce andare a piedi, sempre con la camminata decisa. Passa di nuovo davanti al bar-tabacchi di Battisti, dove ormai l'uomo della maglietta azzurra non c'è più. Sarà andato ad augurare buona Pasqua altrove, o a preparare la tavola per mangiare, ché in Brianza si usa servire la pastasciutta a mezzogiorno in punto. Poche decine di metri più avanti, trovo un passaggio a livello chiuso. Barriere temporanee che restano giù solo quel tanto che serve. Poi si rialzano. E la vita continua.



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